Quando la 'bellezza' generò la democrazia
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Il celebre "epitaffio" pronunciato da Pericle agli ateniesi nel 430 a.C., riportato dallo storico Tucidide nel suo "Guerra del Peloponneso", è il manifesto della democrazia ateniese e dei caratteri che la costituirono, giacenti in una visione a noi sconosciuta della "bellezza" e della "conoscenza".
Esistono vari concetti di democrazia.
Ma quella ateniese fu la prima.
Una formula di partecipazione al governo della città che non è riproducibile, per ragioni pratiche: su una popolazione di circa ventimila abitanti, solo in quattromila, più o meno - le fonti non sono del tutto concordi - avevano accesso ai diritti politici. E la loro presenza nell'assemblea, l'Ekklēsía, regolata dalla Boulé, l'organo di derivazione aristocratica, costituiva di fatto un modello di democrazia diretta, un modello plebiscitario, per molti versi caotico, acerbo rispetto al sistema rappresentativo, patrimonio delle democrazie moderne e contemporanee.
Facendo la tara all'efficacia di quell'ordinamento e all'uso politico di una retorica di pregevole qualità, le parole di Pericle raccontano di un mondo distante anni luce dal nostro, una società nella quale il senso di appartenenza affonda le radici in una visione comunitaria della realtà: si tratta della "politéia", dell'ordine che, costituito intorno all'idea del bene condiviso, regge la "pòlis".
Ma non può costituirsi una politéia che non affondi le radici in una visione oggettiva, in uno sguardo che non sia espressione di un tratto esclusivamente individuale: la verità dei concetti deve riconoscersi in un valore da tutti compreso, incontrovertibile, inemendabile.
Se non si entra in quest'ottica interpretativa, il discorso di Pericle rimane vanamente esornativo.
Prendiamo questa frase:
"...Infatti noi amiamo ciò che è bello ed insieme frugale ed amiamo la saggezza senza mollezza..."
Amare il "bello" non è un sentimento individuale; amare la "conoscenza" non è un'attitudine del soggetto, una disposizione dell'animo.
Amare la bellezza significa "fare" secondo un canone, seguendo il principio della "forma", il saper mettere in forma un'opera, un'opera d'arte tanto quanto un'opera artigianale di uso comune. La bellezza è bellezza del fare, del fare bene. E la conoscenza è la capacità di saper fare sulla base di un canone di bellezza che è funzionale, oggettivo, scevro dall'arbitrarietà del gusto individuale.
Nell'origine del racconto omerico, la filosofia è la conoscenza del maestro che sa come si costruisce una nave. E questa origine, sgomberando il campo dai luoghi comuni, rimane il fulcro essenziale del sapere filosofico, un "sapere" per il "fare".
Questa spiegazione del sapere filosofico e del conoscere il significato del "bello", rappresenta il pensiero greco maturo, la sua originalità di ricerca razionale, di un "epistème" come sapere universale, un sapere che possieda la certezza dell'oggettività, che "sta" al di sopra, che si regge da "sè".
Siamo nel fulcro del ragionamento platonico.
Dunque, chi conosce le norme del "bello", partecipa al bene della pòlis, ed è quindi titolato a partecipare al suo governo.
Solo chi sa fare acquisisce il diritto a partecipare.
Poiché colui che sa fare "bene" il proprio mestiere, mostra il segno della propria appartenenza al principio ispiratore della pòlis: il bene comune.
Questa è la condizione essenziale per la democrazia.
Ed è la ragione per la quale Pericle indica agli ateniesi il motivo della loro egemonia:
"...ci serviamo della ricchezza più per l'opportunità di azione che per lo sfoggio in un discorso, e non è vergognoso ammettere di essere povero, anzi è più vergognoso tentare di rifuggire con i fatti la povertà. Le stesse persone si possono occupare diligentemente degli affari domestici e politici contemporaneamente e per gli altri, che si sono dedicati ad altre occupazioni è possibile conoscere le attività dello Stato abbastanza bene. Noi soli, infatti, consideriamo chi non prende assolutamente parte a queste questioni politiche non quieto, ma inutile..."
La diligenza negli affari privati è diligenza negli affari della pòlis, è condizione essenziale al potersi impegnare nell'attività politica, incalza dunque Pericle.
E chi non partecipa, chi non è in grado di partecipare poiché estraneo alla capacità di conoscere e di fare secondo il canone di bellezza razionale, non è utile alla città, non è utile al bene comune, alla meta ultima che ogni cittadino deve proporsi di conquistare a vantaggio di tutti.
Coloro che si distinguono per la qualità del loro "fare", che agiscono nella conoscenza del "bello", saranno i migliori artefici della politéia.
A maggior ragione, aggiunge:
"...Utilizziamo infatti un ordinamento politico che non imita le leggi dei popoli confinanti, dal momento che, anzi, siamo noi ad essere d'esempio per qualcuno, più che imitare gli altri. E di nome, per il fatto che non si governa nell'interesse di pochi ma di molti, è chiamato democrazia; per quanto riguarda le leggi per dirimere le controversie private, è presente per tutti lo stesso trattamento; per quanto poi riguarda la dignità, ciascuno viene preferito per le cariche pubbliche a seconda del campo in cui sia stimato, non tanto per appartenenza ad un ceto sociale, quanto per valore; e per quanto riguarda poi la povertà, se qualcuno può apportare un beneficio alla città, non viene impedito dall'oscurità della sua condizione..."
Questo è l'humus nel quale germogliò la democrazia ateniese, la tendenza a dare forma all'oggettività: così si spiega l'arte dei Mirone, Policleto, Fidia.
La visione della bellezza oggettiva che possa richiamarsi all'idea e non all'inutile, particolare, individuale imitazione dell'oggetto empirico, una "mìmesis" che produca, in aderenza sensibile, il contenuto universale dell'idea.
Ed è in questo solco che sorge il rapporto indissolubile tra "bello" e "bene", poiché è nell'oggettività della bellezza e della sua conoscenza che può leggersi la relazione con il bene universale.
Il bene, frutto della bellezza oggettiva.
La democrazia ateniese durò per un frammento nel tempo della storia.
Era essa stessa un'utopia, fragile, soggetta a ininterrotti processi interpretativi, debole tra i flutti della tempesta di rigurgiti individuali e di gruppo.
Era utopia tanto quanto la "Repubblica" di Platone, dopo la condanna di Socrate, ne fosse il disilluso tentativo di emendarla, almeno sul piano strettamente teorico.
"Ma di quella enorme, straordinaria pretesa, rimane traccia proprio nell'arte, nel "Doriforo" di Policleto, nel "Discobolo" di Mirone, nell'Amazzone "capitolina" di Fidia, in tutte quelle forme tese a rappresentare il contenuto di verità universale che rese possibile, nella breve trama del tempo, la bellezza incarnata della politica."
La medesima bellezza che Michelangelo seppe rappresentare con il "David" nella Firenze della Repubblica a cavallo tra la fine del '400 e gli inizi del '500, la "res publica" vissuta da Niccolò Machiavelli.
La Firenze nella quale, forse, si poteva udire l'eco del pensiero politico di Pericle, che in un'altra occasione, precedente di molti anni al citato Epitaffio, pronunciò queste parole:
"...Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benché in pochi siano in grado di dare vita ad una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla.Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia.Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore.Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell'Ellade e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versatilità, la fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero.Qui ad Atene noi facciamo così."
Già. Ad Atene.
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