La tragica parola della felicità smarrita


Si avverte un sentimento d'angoscia, appena attenuato dalla notizia di un vaccino ormai realizzato, speranza alla quale ci si attacca per puntare la luce in fondo al tunnel. Ma è una luce distante, ancora troppo flebile e incerta. La pandemia è un nemico implacabile, che alcuni vorrebbero esorcizzare rifiutandone la presenza, negandone la pericolosità, disprezzandone le uniche difese possibili. E' un atteggiamento che si afferma in ogni parte del mondo, attraversando la politica, dettando nuove parole, dividendo e aumentando l'incertezza

La comunicazione, le parole, i segni, le espressioni, tradiscono la soggettività, la nascondono e la svelano allo stesso tempo, la catturano e la rivelano nel medesimo istante. 
Tutto il dibattito, da mesi, sul Covid-19, non è altro che un tormento quotidiano tra chi avverte e chi nega, tra chi ne amplia la portata e chi la riduce, tra chi chiede misure drastiche e chi fa appello al buon senso individuale, tra chi approva e chi critica le misure adottate dei governi, tra chi accetta le restrizioni e chi rivendica la libertà, tra chi indica le cause e chi evoca il complotto.
Forse è naturale che sia così: l'umanità si trova di fronte ad un dramma sconosciuto alle nostre generazioni. 
D'altronde, le conseguenze indirette sono altrettanto complesse.
Tutto si blocca, tutto è divenuto precario, il sistema economico occidentale è sull'orlo del collasso e tutti si chiedono non solo quando finirà, ma anche come: come lascerà le imprese e le nostre comunità, la scuola, l'università, il mondo del lavoro, le abitudini e le possibilità. 
Chi ce la farà a sopravvivere e ad avere risorse per continuare a svolgere un'attività, quante chiuderanno per sempre, quante passeranno di mano, quanta povertà in più si formerà, quanta ricchezza, concentrata in mani sempre più voraci, sarà cresciuta. 
La pandemia produce già una società di diseguali, sempre più distanti, tra una massa incerta ed elite più forti, concentrate, impensabili. 
Quando l'ondata sarà passata, si farà una conta macabra, comunque: perchè lo stato angoscioso che ci pervade non è solo per ciascuno di noi. Un'empatia diffusa ci fa pensare all'altro, anch'egli prigioniero dell'impossibilità ad agire, in attesa, sospeso. E questo moltiplica lo stato d'animo, complica la percezione delle relazioni.
Il pensiero corre verso coloro che hanno dedicato risorse, impegno, fatica, sacrifici, all'impresa di una vita, a quella che stava crescendo, a quella appena avviata. E il pensiero va alle notti insonni, alla disperazione, sempre più spesso alla fame, fame vera,  fame nascosta per pudore, di chi sta vivendo di niente o quasi.


Sì, certo, l'Italia è un grande Paese, così si dice. 
Possiede tanta ricchezza nei conti correnti e in tante forme di denaro investito.
Ma c'è tanta Italia che non ha nulla. 
Non solo il Paese di coloro che vivevano alla giornata, precari a vita. 
C'è anche il Paese dei tanti il cui tenore di vita era già in bilico, famiglie che in questi anni di crisi hanno imparato a spaccare il centesimo provando ad andare avanti, famiglie nelle quali i figli, crescendo, hanno cominciato a capire e non sanno come prenderla, quale debba essere il nuovo ruolo di fronte alla tensione di giornate vuote di sorrisi, giornate pesanti, giornate dei mille come e dei mille perché condannati a restare senza risposta.
Cosa accadrà a queste famiglie? 
Quale voce hanno? E avranno?
Mentre la tv e il web lascia scorrere i soliti spot, quelli del mondo di prima, quelli del mondo che viveva di speranze e di velleità, che possono anche essere il nutrimento avvelenato della vita.
Ma adesso, le immagini e i suoni e le parole del benessere sono come lame che trafiggono gli occhi, che disgustano, che stridono.
E poi, di fronte a tutto questo c'è chi si rifiuta di accettare, chi minimizza e cerca consenso, chi si attacca al luminare di turno che possa dire basta e criticare misure e scelte. 
La ragione? 
Sempre quella, l'angoscia del buio.


Dice bene Umberto Galimberti, maestro dei nostri tempi: l'angoscia è il buio che fa perdere ogni possibilità di vedere dove ci si trova. La paura è sempre diretta verso un oggetto determinato, un nemico visibile, palpabile, lo puoi vedere e quindi combattere. L'angoscia no. La luce si spegne e il mondo attorno perde i caratteri del riconoscimento.
Così, questo sentimento, ancestrale, profondo, scava lasciando emergere l'irrazionale che si traveste d'atteggiamenti spavaldi, che contraddice l'allarme e chiede, però, condivisione: senza un'identità collettiva, l'angoscia che nega e si rifiuta non può essere sostenuta a lungo. 
Assieme, si può.
E assieme si può sostenere il "grande complotto", la presenza di un nemico invisibile che di volta in volta si riferisce a un concetto impersonale oppure a una figura che lo incarni in una visione collettiva simbolica, tutte immagini di un potere occulto, che manipola e controlla un mondo di schiavi inconsapevoli. 
Così, tra la follia del rifiuto e la rabbia dell'evidenza, le comunità si sfasciano, si dividono lasciando emergere conflitti rimasti sottotraccia: l'odio verso i commercianti che evadono e l'odio, di riflesso, verso gli stipendiati che hanno la certezza delle risorse per vivere; l'odio per dirigenti incapaci e inadeguati che ricevono compensi elevatissimi, numeri tangibilmente lontani da quelli dei funzionari semplici che tirano la carretta. E ancora, l'odio di chi usa le braccia per quelli che rimangono alla scrivania e addirittura possono starsene a casa in "smart working", ennesimo inglesismo che contamina i linguaggi, mascherando una realtà che possiede altre parole come riduzione della mobilità, riduzione della produttività, riduzione della socialità, riduzione della responsabilità. L'odio anche verso i pensionati, specie quelli più fortunati, che non hanno più i problemi della quotidianità. 
Un odio che si alimenta di ogni sussulto, immemore che ognuno è, almeno in parte, qualcosa di tutti.


Questo è oggi il Covid-19, la tragica parola che esprime le nostre fragilità e quelle di società sbagliate, nelle quali il ceto medio ha già subito, nell'ultimo decennio almeno, un costante impoverimento ed una progressiva riduzione del ruolo dello Stato, protezioni sociali sempre più limitate, servizi sanitari inefficienti fino allo scandalo, una qualità della vita regredita ad un livello ineffabile.
D'accordo, arriverà il vaccino, dobbiamo resistere, sperare, considerare la temporaneità di questa condizione. 
Ma non c'è persona al mondo, in questo mondo d'occidente, che possa vivere, per mesi, senza risorse. 
Poiché questa, di fatto, è la prospettiva. 
E chi non le possiede, oggi, è debolissimo, è a rischio, è sull'orlo del precipizio sociale. 
Probabilmente chi è giovane può farcela, ha il corpo attivo e vitale per sostenerne la rabbia. 
Ma chi non lo è più, chi ha raggiunto la mezz'età e faceva già fatica?
Una botta sempre più forte, sempre più dolorosa.
Che ricorda ad ogni acuto l'insipienza dei sogni sbagliati.
Così, ad ammalarsi è anche l'anima.
I medici pensano a salvare i corpi, è il loro mestiere. 
Forse. 
Ma per la fame, non hanno mai trovato alcuna cura.
Neanche quella per riavere la felicità smarrita.

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