Conte il comunicatore
Nuovo Dpcm e nuova conferenza stampa del presidente del consiglio Giuseppe Conte. Che prova a districarsi tra i nuovi colori dell'Italia sotto pandemia. Il premier ha mostrato in questi mesi una notevole vitalità mediatica e una sicurezza lontanissime dal "primo Conte" del 2018, quando inaspettatamente assunse la carica apicale in un esecutivo dei due "vice" che facevano e disfacevano a piacimento, considerando marginale il ruolo del capo del governo. L'insolita, irresistibile ascesa di uno sconosciuto che regge i destini del Paese con piglio da navigato politico di lungo corso. Forse inconsapevole dei propri limiti
C'è ben poco da meravigliarsi e solo da constatare?
Direi di no. C'è da meravigliarsi e anche da apprezzare le doti di comunicatore del premier italiano, Giuseppe Conte, figura sconosciuta una ventina di mesi fa, candidato alla guida del governo da un esuberante movimento 5 stelle che rivendicava il ruolo nella scia di un redivivo - in realtà mai dimenticato - manuale Cencelli.
Così, l'avvocato e professore di diritto privato a Firenze, divenne presidente del consiglio. Ma nessuno pronosticava, forse nemmeno lui, una solida permanenza in quel ruolo.
Sia gli osservatori che lui stesso, hanno dovuto ricredersi.
Da bruco a farfalla
In effetti, gli esordi furono quelli di un uomo impacciato nell'indossare i panni del premier: lo si vedeva nel passaggio di consegne con l'inquilino di palazzo Chigi dell'epoca, Paolo Gentiloni, con quel passo cadenzato e troppo lento nel saluto al picchetto d'onore e poi nelle prime uscite parlamentari, fino a meritare, per la sua posizione dimessa rispetto ai capi partito al governo, la satira tagliente di Crozza che lo interpretava alla stregua di un maggiordomo chic attento più alla forma che al contenuto.
D'altra parte, si avvertiva lo stile tendente all'affettazione dell'avvocato, eccessivo nel tono retorico dei suoi discorsi, una caratteristica che ha un po' limato ma non ha perso del tutto. Però, nel Paese delle tragedie sepolte sotto fiumi di parole indignate, è quello che i cittadini si aspettano dal capo del governo: le parole necessarie, l'atteggiamento moderato, la forma prima della sostanza ovvero, per dirla nel linguaggio giuridico, la forma che è anche sostanza. Almeno nella percezione generale. Ed è così che Conte, curriculum accademico e professionale di tutto rispetto, si è via via guadagnato spazio, specialmente in un ruolo che non sempre è stato agevole per i premier italiani: le relazioni internazionali, in modo particolare nell'Unione Europea, dove la sua stella di tecnico prestato alla politica ha cominciato a brillare di luce propria, mentre in Italia doveva assumere la qualità di mediatore instancabile tra le forze politiche di una maggioranza insolita.
Il sospetto degli alleati
La vicenda non è mai stata chiarita fino in fondo, ma credo sia andata più o meno così, in quel torbido agosto del 2019.
La crescita esponenziale del "primo" Conte, sempre più a suo agio nella carica e sempre meno disposto a ridurla alla diuturna funzione notarile delle pretese dei partiti di governo, ha insospettito il suo principale sponsor, Luigi Di Maio, allora capo dei pentastellati, certamente lontano anni luce dalla statura curriculare del premier e sempre più preoccupato di aver dato vita ad una figura di crescente autorevolezza pronta a fargli le scarpe.
La classica serpe nel seno.
Cosa fare? Affidare al suo alleato Salvini, ben contento di fare il bullo, il compito di mandare all'aria il governo e rifarlo, subito dopo, con Di Maio premier e la lega azionista di maggior peso con ministeri importanti e più numerosi. Del resto, lui, Di Maio, non può certo dare addosso al presidente espressione del movimento. Invece, Salvini, ingenuo e spregiudicato, crede di poter compiere il delitto politico con poche battute, presentando a Conte il ben servito e attendendosi il suo garbato assenso.
Ma Conte, a quel punto, non ci sta.
Ha fatto i suoi calcoli ed è consapevole che il movimento 5 stelle lo difenderà, che lo stesso Di Maio sarà costretto a sostenerlo e che una crisi parlamentare gli permetterà di sganciarsi in modo convincente, anche di fronte all'opinione pubblica, dalla destra leghista e accreditarsi come figura forte, questa volta, del partito fondato da Grillo e Casaleggio. I due grandi azionisti dei pentastellati, dopotutto, hanno trovato il leader che cercavano, quello davvero rappresentativo e qualificato in un'armata brancaleone giunta alla guida del Paese dopo pochi anni dalla fondazione.
L'abilità di Conte
Il passaggio parlamentare in quell'agosto del 2019 è una sorta d'incoronazione: Salvini messo in un angolo, si accorge che il presidente del consiglio non agisce per impulso ma sotto l'egida di una studiata strategia che fa leva proprio sull'isolamento del rampante leader leghista e sulla voglia del partito democratico di tornare al governo, nella contestuale certezza che nessuno dei parlamentari appena eletti abbia voglia di rinunciare allo scranno.
Una lunga crisi al buio potrebbe indurre il capo dello stato a sciogliere le camere.
Conte fa, dunque, bene i suoi calcoli, esce vincitore dal confronto, si ritira come un'antica tradizione politica insegna e lascia fare i maneggi per la formazione di un nuovo governo e di una nuova maggioranza ai partiti coinvolti.
Salvini prova a fare retromarcia, in modo abbastanza grottesco, ma ormai il solco è tracciato e l'unico intoppo, subito superato, si palesa per accontentare un ammutolito Di Maio, che mai potrà ammettere la congiura dipinta però sul suo sguardo torvo.
Conte rinasce e questa volta è un presidente del consiglio molto, ma molto più forte del primo, davvero arbitro dell'azione di governo e persino con la benedizione, interessata, di Matteo Renzi. E quella internazionale di Trump che dagli Stati Uniti twitta il celebre "forza Giuseppi".
Cambia il modello di comunicazione e nasce il brand
Giuseppe Conte è una persona riservata, per scelta più che per attitudine.
Conosce bene, tutto sommato, il mondo di palazzo.
Solo cinque anni prima di diventare presidente del consiglio venne nominato componente laico del consiglio superiore della giustizia amministrativa: non si arriva a quella carica senza essere un sapiente "public relation man".
Però, è consapevole del pericolo legato ad una eccessiva esposizione mediatica: si producono invidie e si suscitano sospetti.
Per questa ragione egli ci tiene a mantenere sotto traccia la vita privata e ad incentivare, invece, il ruolo pubblico e persino l'originalità di un premier che incontra il più illustre dei filosofi italiani, Emanuele Severino, per discorrere con lui, a beneficio del pubblico, di temi alti, sfoderando il suo appeal di accademico.
La presenza in tv è contingentata, quasi mai nei talk show: anche questa scelta fa parte di una strategia.
Un passo dopo l'altro, con decisione, Conte costruisce l'immagine di un capo del governo serio, competente, colto e recettivo alle istanze popolari, l'uomo giusto per l'Italia.
E chi ci pensa più all'accusa di trasformismo che è tra i suoi maggiori punti deboli?
La seppellisce sotto una coltre di retorica e di finto candore. Forse non avrebbe funzionato se a gennaio non fosse cominciato a circolare il coronavirus, l'evento doloroso e inaspettato che impone a Conte uno sforzo ulteriore ma che verrà premiato dai cittadini con un gradimento crescente.
Ed è in questo inaspettato frangente che il "brand Conte" comincia a delinearsi: nel caos, la sua figura, mai toccata da discredito, si attesta come l'unica in grado di rappresentare una guida sicura, risoluta. Ed è ancora il ruolo in Europa a scandirne il crescente apprezzamento.
La trattativa nell'UE sul recovery found
Non si ricordano figure di premier italiani così attivi sulla stampa estera: nelle settimane cruciali del negoziato con i Paesi partner, Conte ha in parallelo fatto sentire la sua voce sulle principali testate giornalistiche europee, specialmente su quelle dei Paesi più rigidi nell'accordare misure di sostegno agevoli, ampie e non gravate da clausole severe, come l'Italia chiedeva assieme a Francia, Spagna e, infine, anche Germania. E Conte non si è risparmiato in bilaterali con i governi del "fronte del nord", anche lì, comparendo sulla stampa con interviste dedicate all'argomento, rassicuranti sull'uso delle risorse, fortemente intrise di un chiaro ragionamento sul principio della solidarietà europea.
Una strategia che è stata coronata da successo e che in Italia è piaciuta molto, consacrando il presidente del consiglio al primo posto nella fluttuante classifica del gradimento sui leader.
Eppure, qualcosa non va.
Retorica roboante ma risultati scarsi e scelte discutibili
Alle parole del premier sui ristori e gli aiuti dedicati alle aziende in difficoltà a causa del covid-19, alle partite IVA, ai dipendenti del settore privato, mediante contributi a fondo perduto, cassa integrazione, blocco dei licenziamenti, prestiti agevolati, e via discorrendo, fanno eco i ritardi e le inefficienze che riflettono lo stallo generale dei servizi pubblici italiani, gravato da un peso burocratico forse peggiore della stessa pandemia. E qui, Conte, non è tempestivo, non coglie la gravità della situazione e della crescente critica, continua a palesare sicurezza e lo fa con il solito tono retorico col quale tenta di coprire ritardi e incertezze, certificando la debolezza intrinseca dell'esecutivo, incapace di dare corso regolare e rapido alle misure di sostegno adottate.
L'errore diventa facilmente una critica feroce quando si accavallano decreti sconclusionati sulle regole di contenimento e iniziative piuttosto pittoresche come "gli stati generali dell'economia", una passerella giudicata inutile da tutti gli osservatori.
Poi, le gaffe sulle task force ministeriali, sul ruolo di un manager come Vittorio Colao chiamato a dare una mano e subito dopo platealmente ignorato, il rapporto difficile con le opposizioni, anche laddove l'accoglimento di alcune proposte avrebbe favorito una maggiore coesione sociale.
Infine, la difesa a priori di una figura francamente discutibile per metodo e risultati come il commissario per l'emergenza Domenico Arcuri.
Il tutto connesso all'evidente e colpevole differimento di interventi seri su scuola e sanità, comparti essenziali per la migliore gestione della pandemia sui quali non si agito tempestivamente. Le regioni sono compartecipi di queste lacune, ma il governo non ha assunto i necessari provvedimenti, tra i quali spicca l'irragionevole rifiuto del MES, il fondo europeo destinato al sistema sanitario, un rifiuto avallato e ripetutamente difeso proprio da Conte. Quest'impasto di elementi ha eroso, via via, tra primavera ed estate, il gradimento sul premier, palesandone i limiti.
Mancanza di visione
Sono rimasto colpito da un fulminante giudizio di Carlo De Benedetti sul premier, definito un manager della politica privo di visione, a segnalare l'assenza di chiara posizione politica - un riferimento al suo trasformismo disinvolto - e la mancanza conseguente di un progetto politico per un Paese gravato da decine di problemi esiziali.
Bisogna dire che De Benedetti non è simpatico quasi a nessuno. Caustico e diretto nei giudizi, tagliente nelle parole. Però è un osservatore razionale che sa sfrondare la materia e arrivare al nocciolo.
Nel caso in questione, come dargli torto?
Certamente, Conte ha mostrato di possedere qualità unite all'autorevolezza del curriculum e ad una certa sagacia nel districarsi nel difficile mondo della politica italiana. E' giustamente apprezzato tra i partner europei per il piglio deciso unito alla gradevolezza dei toni. E questo si avverte anche in Italia. Indubbiamente, è un leader. Ma all'italiana, forse troppo all'italiana: determinato nella tempesta, timidissimo nella ricerca di una soluzione ai problemi profondi del Paese. Nocchiero della classica navigazione "a vista", non sa affrontare il mare aperto dell'azione riformista, digiuno di pratiche organizzative complesse ma bravo a sfruttare i meccanismi della comunicazione per accreditarsi.
Il punto è tuttavia uno solo, ineludibile, sempre ignorato dalla classe dirigente nostrana: è la verità dello sfondo che sostiene o fa crollare la comunicazione.
E il "brand Conte" rischia, su questo, di perdere tutta la reputazione acquisita, divenendo il testimonial-cannibale di se stesso.
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