'Perché non parli?' E Mosè parlò


La bellezza appartiene ai sensi. Non è oggettiva. Non ha autore, solo spettatori. Stupiti, meravigliati, incantati. Senza il mondo greco, l'occidente non avrebbe mai potuto conoscere e tramandare l'arte intesa come tentativo di bellezza. E senza il cristianesimo non avremmo mai conosciuto lo sviluppo dell'arte, come riferimento al sacro. Tuttavia, mentre nella cultura greca, la bellezza è declinata nel verso dell'armonia, unica possibile fonte di felicità nell'unico mondo possibile che è quello terreno, la cultura dell'occidente cristiano ha scelto la rappresentazione come traccia materiale del trascendente, come simbolo della verità della carne, "verbum caro factum est" (Giovanni 1.14). In questa scia, Michelangelo, spettatore rapito e sognante di fronte al Mosè compiuto, esclamò: 'perché non parli?'

La frase, riportata in un opuscolo anonimo, è avvolta da un velo di leggenda.
Ma non importa: è del tutto verosimile. Questo è sufficiente.
Verosimile, perché espressione dell'identico trasalimento di uno spettatore che, fin da quei frangenti della prima metà del '500 in poi, abbia potuto ammirare, in San Pietro in Vincoli, questa meravigliosa opera, geniale testo plastico dell'impeto, del sussulto morale, dell'ira trattenuta e tuttavia incombente. E' la reazione all'apostasia degli ebrei: il popolo del Dio del verbo, del Dio della parola, del Dio ineffabile e inattingibile con lo sguardo, in attesa del ritorno di Mosè dall'ascesa al monte Sinai, non si accontenta più della parola e adora un feticcio, il vitello d'oro. Il profeta, che ha ricevuto le Tavole della Legge, rimane attonito, lascia cadere la pietra del sacro dettato divino, scosso, si appella alla barba fluente per contenersi ma è già nell'atto di alzarsi per scagliare tutta la furia che è nella possanza del suo corpo, nel segno che traluce dai suoi occhi implacabili.
Così lo immagina Michelangelo.
Che non è più l'autore della bellezza ma testimone privilegiato, primo, assorto nella figura emersa dalla materia dura ed ora lì, di fronte al maestro, colta nell'istante.
Ma l'artista si rende conto che l'opera è solo "quell'istante" vissuto come traccia emotiva, in un tempo che è fuori dal tempo, proiezione della mente che diviene presenza materiale inattingibile, esattamente come lo è il trascendente: come di respiro trattenuto in gola.
Ecco la bellezza che appare con il suo tratto caratteristico: l'immediatezza del vedere.
Dunque, la bellezza come visione, da ὁράω (orao, vedere), dal quale discende l'aoristo ε-ἶδ-ον (eidon) matrice, mediante l'uso della radice ἶδ (-id) di una parola così carica di significati e d'influenza: "idea".
La bellezza è nell'idea, nella coscienza che può immaginare, fare immagine delle cose e produrre le cose stesse, esserne l'atto creatore. E l'idea, fattasi materia, colpisce i sensi, è αἴσϑησις (aìsthesis), percezione, sensazione, sensibilità.
In questo solco, l'estetica non è mai scienza ma disciplina che studia le regolarità attraverso l'ottica della soggettività, del bello che è un apparire ai sensi. 
Mai potrà cristallizzare una gerarchia del bello ma limitarsi ad analizzarne quell'apparire e le molteplici sensazioni, non la verità immota ma la percezione cangiante e tumultuosa dello stato d'animo, dell'espressione mutevole che interpreta.
Innanzi al Mosè, fioriscono, dunque, le interpretazioni. E tra queste, non più e non solo quella che coglie l'attimo prima dell'impeto narrato, ma la personificazione simbolica della forza che domina i moti interiori, dell'eroe che irrompe per sedare il caos, che è guida, che è luce, che è saggezza severa. Quest'esegesi si fa forza mediante la ricostruzione storicamente fondata del programma iconografico della celebre tomba di Giulio II per la quale, nell'ultima proposta, si prevedeva una serie di sei figure sedute rappresentative di virtù universali, scevre dalla contingenza del racconto biblico. 
Una scelta confacente, peraltro, all'apologia del "Papa guerriero", Giuliano della Rovere il quale, a dispetto della fama, fu un pontefice assai amato al suo tempo.


Ma è qui che tutto muta.
Si presti attenzione. Non può esserci discussione su quest'ultima interpretazione, per di più sostenuta dai più scrupolosi storici dell'arte: basterebbe, d'altronde, pensare alle figure dei profeti, dipinte dallo stesso Michelangelo sulla volta della cappella Sistina, per suggellare un richiamo ineludibile allo stile e al modello di riferimento per il sommo maestro.
Eppure, nell'atto finale, la presenza s'impone, rompe lo schema, supera l'idea e diviene materia d'insondabile bellezza oltre le intenzioni dell'autore.
Michelangelo non è più autore ma stupefatto spettatore.
Comprende la transizione avvenuta e, carico di quella furia, di quel moto violento che sentiva in sé nel levare la figura dalla prigionia della pietra, trasalisce dell'improvvisa emozione e scaglia il martello sul ginocchio del profeta pronunciando l'invocazione celebre.
E' leggenda, lo ripeto.
Ma è verosimile, lo ribadisco.
Tanta è la suggestione che da sempre l'opera suscita e che Giorgio Vasari racconta nel suo celebre "le Vite":"... alla quale statua non sarà mai cosa moderna alcuna che possa arrivare di bellezza, e de le antiche ancora si può dire il medesimo... E seguitino gli Ebrei di andar, come fanno ogni sabato, a schiera, e maschi e femmine, come gli storni a visitarlo et adorarlo: che non cosa umana ma divina adoreranno."
Perchè non credere, dunque, alle parole che la vulgata ha registrato sotto il velo della tradizione, forse influenzata dall'ovidiano Pigmalione, forse memore dell'espressione dantesca "visibile parlare" (Purgatorio, Canto X): "Colui che mai non vide cosa nova /produsse esto visibile parlare, / novello a noi perché qui non si trova.".
Perché non credere al moto dell'animo, alla preghiera dell'inquieto Michelangelo.
In quelle parole sorge e si attesta l'interpretazione più sicura.
La leggenda può ben essere un'altra.
Mosè parlò.
Ancora oggi echeggiano quelle parole.
Risuonano nel silenzio tempestoso dell'anima. 

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