Il cristianesimo e l'architettura templare


Appare presto una suggestione in chi si occupa di architettura templare: un segno di continuità tra l’era volgare delle molte divinità e la religione cristiana, specie facendo riferimento allo sviluppo del tempio nella “Magna Graecia”. Che diventa, da edificio sacro distante e inaccessibile, a luogo che accoglie e pone la possibile relazione con la divinità. Questo passaggio è la lontana apertura di una breccia che contribuirà al lungo processo di assorbimento dell’architettura templare da parte dell’Occidente, in un’ottica cristiana. Conviene fare un viaggio velocissimo attraversando una storia affascinante, ancora oggi capace di suscitare l’emozione di capire l’uomo e la relazione tra l’arte e il soprasensibile

Presentare la storia del “tempio” antico in poche pagine è quanto di più complesso si possa, con enorme presunzione peraltro, immaginare. Ma un articolo non è un trattato. Si presta ad essere un modello di comunicazione rapida, agevole, orientativa, senza per questo perdere le qualità di una disamina scientifica, seppur largamente lacunosa e lontanissima dall’essere esaustiva, anche in un’ottica di necessaria sintesi.
Comunque, ci provo.
Partiamo dal tempio arcaico. Presenta le caratteristiche essenziali di un’architettura che ambisce ad essere definitiva trasformando il tempio sia sul piano strutturale che su quello prettamente estetico, portando a compimento il processo di litizzazione già avviato nel corso del secolo precedente e che vede nel tempio di Corfù (580 a.C.), dotato della celebre decorazione del frontone con figurazioni plastiche in calcare, la prima struttura architettonica interamente in pietra.
Ma c’è un altro modello sul quale vorrei soffermarmi per un commento più approfondito, capace d’introdurre ad altri temi come quello per me più importante, del rapporto tra culto e arte.
Oggetto di una piccola ricerca e modello scelto per capire di più.


Si tratta del tempio di Athena Aphaia II, posto nel santuario nell’isola di Egina, che può essere considerato una delle più riuscite realizzazioni dell’architettura dorica. Eretto ampliando considerevolmente la pianta del tempio I (a sua volta una tra le prime, ancora acerbe, litizzazioni templari, risalente al 575-570 a.C. e distrutto da un incendio nel 510 a.C.), tra la fine del VI e gli inizi del V secolo a.C., si tratta di un’architettura templare di tipo periptero esastilo (14 m circa sulla fronte, il cosiddetto stilobate) con 12 colonne per ciascuno dei lati lunghi (30 m circa), pronao ed opistodomo “in antis” di tipo distilo entrambi, con il primo più profondo. Le colonne presentano la tipica scanalatura a spigolo vivo con capitello costituito da abaco quadrangolare ed echino troncoconico. Il naos presenta tre navate.
Quest’espressione architettonica si colloca, dunque, tra l’epoca tardo arcaica e la soglia dell’età classica, mostrandone i caratteri di maturazione sia riguardo ai principi costruttivi e d’ordine, che nelle realizzazioni plastiche.
In ambito architettonico traspaiono, come da una singolare ma certo motivata affermazione di Dieter Mertens, insigne studioso, già direttore dell’istituto archeologico germanico di Roma, “proporzioni e gusto che ne fanno un esempio di penetrazione d’eleganza di gusto ionico in ambiente attico”.
Il punto è che Mertens è in grado fare una simile affermazione perché ha visto dal vivo il tempio. Ed è stato nel santuario di Egina, ne ha respirato l’atmosfera, ha potuto trarre anche mediante il tatto ulteriori sensazioni che la sola vista non coglie. Per coloro come me per i quali il tempio è una fotografia frammentaria, un disegno ricostruttivo assonometrico o in pianta, è esclusa ogni possibilità di comprensione al di là della semplice nozione. 
Ma poi: chi era Athena Aphaia? 
Anzi, considerato che allora come oggi essa permanga in uno stato “fuori dal tempo”, chi è?
Aphaia è una dea locale: l’etimologia indica il significato di “non oscura” ma nel mito essa assume il significato di colei che “svanisce”, gettando le solite ombre sul tentativo di razionalizzare in modo banale la narrazione antica.
Di certo si sa che Aphaia o Afaia venne assimilata ad Athena, probabilmente a seguito dell’occupazione degli ateniesi intorno alla metà del V secolo. Dal sito del ministero greco della cultura, rilevo che l’origine, sia del santuario che del mito, affonda le radici nell’età micenea e nella divinità cretese Britomartis-Diktynna.
Già in questo schema di appropriazione-trasformazione delle divinità locali da parte dei vincitori, echeggia un processo d’ibridazione religiosa che non è estraneo neanche alla tradizione cristiana.
Ma procedo oltre.
Il santuario è posto su un promontorio nella zona nord-est dell’isola. 
Provo ad arrivarci con "Google Maps" ma posso solo avvicinarmi: è probabile che normative concernenti la tutela del patrimonio artistico ne abbiano precluso le riprese. 
Nulla da fare, insomma. 
Bisogna affidarsi alle parole di Mertens e desistere. Cerco rifugio nella descrizione dei frontoni est ed ovest. Il primo, che le ricerche hanno rivelato presentasse raffigurazioni plastiche a tutto tondo classificate come appartenenti all’età severa (risalenti al 485-480 a.C.) concernenti la prima guerra troiana, è andato largamente perduto. I combattenti convergono verso l’interno dove al centro, tra i due gruppi, è posta Athena che presenta un volto sul quale incide la nuova tendenza a realizzare espressioni più vive, prive di squadrature tipicamente arcaiche. Significativa la figura del guerriero morente, ormai disteso che si aggrappa con il braccio sinistro all’impugnatura dello scudo: induce le stesse impressioni del Galata morente, ma qui la caduta in terra appare davvero palesare l’esito mortale proprio nel gesto delle braccia che rallentano l’ineluttabile.


Lo stile dell’intera raffigurazione, ricostruita magistralmente da Furtwängler - il più insigne tra gli archeologi tedeschi, secondo solo al Winckelmann - è dinamico, acceso, arditamente spaziale. Ma non ha ancora i caratteri della decorazione plastica classica. Del resto, sul frontone ovest a prevalere è uno stile tardo-arcaico che monumentalizza le figure singole come l’intera rappresentazione: l’Athena centrale, immota, appare e sconvolge la scena come se questa esplodesse proiettando i combattenti verso le estremità, verso l’esterno. I limiti dello spazio frontonale sono qui affrontati con evidente immaturità, lasciando intuire dalle posture irreali la realizzazione più antica, che infatti risale agli anni 510-500. Gli acroteri laterali raffigurano delle sfingi mentre quello centrale due figure femminili ai lati di una forma vegetale con volute accentuate. La ricostruzione dei frontoni si è spinta fino alla proposta di ipotesi cromatica, estesa al resto del tempio.
Debbo ammettere che è suggestiva, con i toni vivi di colori primari come il rosso e il blu, tonalità di giallo, poi il bianco. Un effetto che doveva apparire di straordinaria vividezza e che getta da tempo (direi dagli studi filologici di Nietzsche e soprattutto dalla pubblicazione del suo "La nascita della tragedia" che risale al 1876 ) una luce assai diversa sulla presunta austerità dei greci e delle loro espressioni architettoniche e plastiche.


L’esempio del secondo tempio di Athena Aphaia nel santuario dell’isola di Egina, è già una rappresentazione paradigmatica, a cavallo tra i secoli VI e V, coevo alla realizzazione del tempio di Athena a Paestum, nella Magna Graecia. Segno di un’evoluzione che si nutre di sperimentazioni parallele più che d’influenze unidirezionali (dalla madrepatria alle colonie), tanto è vero che si può parlare, a proposito della vivacità dell’architettura templare arcaica, di modelli di sviluppo regionali autonomi.
Anche questa è una scoperta significativa. Che mi permette d’introdurre il passaggio successivo.
Mentre è utile ricordare che con l’Heraion di Olimpia si giunge all’essenziale realizzazione della cella a tre navate, mi pare significativo, nel solco citato, segnalare il tempio C di Selinunte che presenta due originali interpretazioni della tipologia templare in area dorica: la scalinata monumentale che caratterizza l’ingresso del tempio e l’assenza di colonnati all’interno del naos. 
In sostanza, sembrerebbe che il tempio in Sicilia abbia assunto un’importanza di funzione nuova rispetto al tempio dei santuari della madrepatria: non più la prevalente funzione di anathemata che è configurato per essere soprattutto percepito dall’esterno, in prospettiva unitaria, ma un tempio che deve essere vissuto dall’interno, valorizzandone l’ingresso e rendendo ampia la cella, il naos, per finalità di culto che reinterpretano il rito fondamentalmente incentrato sull’altare esterno.
E siamo davvero ad un punto chiave: da qui prende forma un percorso evolutivo che muta l’antropologia religiosa, il culto e il rapporto tra il devoto e il luogo della preghiera. Sarà questa svolta a rivelarsi fondamentale, molti secoli dopo, per l’occidente romano e poi cristiano.
Dunque, si nota una rilevante autonomia nel gioco tra funzione e struttura che sfrutta le diverse possibilità insite negli ordini, passando dalla pesantezza del primo tempio di Aphaia ad Egina (570 a. C. circa) che presenta già l’importante evoluzione del naos a tre navate (rispetto ai templi del secolo precedente come Isthmia, in area corinzia, che è considerato il primo tempio periptero) fino al perfezionamento dell’ordine dorico con il tempio di Apollo a Corinto, risalente al 540 a.C. con il capitello di forma più elastica.
Anche la distinzione tra area dorica e area ionica finisce col confondersi: a Paestum, la Basilica presenta fastose decorazioni di matrice ionica, mentre sempre il tempio C di Selinunte, seppur ancora tozzo nella trabeazione, mostrava metope ad altorilievo ed altrettanta ricchezza decorativa nella copertura fittile, rappresentando entrambi l’esempio di una possibile lettura delle influenze d’ordine che transitano dall’architettura alla decorazione.


In questo senso, mi spingo a parlare d’influenze concettuali estetiche tra il rigorismo austero dell’ordine dorico e la leggerezza e la ricercatezza dell’ordine ionico poi evolutosi anche nella formulazione corinzia. Insomma, i due ordini dialogano su frequenze inusitate. E questo apre lo spazio per una brevissima digressione su una personale interpretazione dei due ordini dorico e ionico.
Considero il primo discendente di una stretta relazione tra l’uomo e la natura circostante, in un tentativo di integrare la realizzazione umana in un elemento naturale dell’habitat, scabro, essenziale, spinto fino all’esigenza di definire una tecnica di correzione ottica degli elementi verticali per armonizzare il manufatto con l’ambiente circostante.
Nel caso del secondo ordine, invece, la maggiore leggerezza (resa possibile dal particolare marmo cicladico che consentiva un maggiore sviluppo verticale, con colonne più esili) e la tendenza al decorativismo, al gusto estetico di una ricercatezza delle forme, appare espressione di uno spirito che tende ad imporsi alla natura palesando con maggiore espressività la presenza umana e la connessa capacità di plasmare gli elementi, lasciando un segno notevole sull’ambiente.
Dunque, i due ordini non sarebbero il risultato esclusivo di un’estetica di puro approccio formale ma di un profondo valore concettuale: un’alternativa tra essenzialità e ricercatezza stilistica con le quali il senso del sacro  svela il carattere che si suppone proprio, un preciso segno distintivo che richiama nella durezza del dorico un principio di purezza e di armonia con l’ambiente, mentre nello ionico s’intravede un’ideale stilistico che afferma l’alterità superiore del sacro mediato dalla capacità dell’uomo nel farlo divenire strumento del dominio del soprannaturale sulla natura: gli dei sconfiggono i giganti!
Tuttavia, quella che si delinea come una sorta di costante dicotomia, non diviene competizione ma dialogo incessante che viaggia su frequenze, come detto, originali come quelle che attengono il gusto decorativo, ma che riesce anche a prodursi in forme di ibridazione come nel caso del pronao del tempio di Athena a Paestum, ovvero di coesistenza data dall’introduzione di un tempio ionico come quello del santuario di Marasà a Locri, in ambiente dorico, dopo l’esempio dell’Artemision di Siracusa che rimane la prima architettura templare d’ordine ionico in quell’area.
In questa scia, dialogica, si giungerà all’architettura classica del V secolo nella quale l’atto decorativo corona una lunga stagione di progressiva maturazione del rapporto tra il tempio e le sue espressioni di interazione comunicativa, passando dal frontone del tempio di Corfù, privo di un tessuto narrativo e composto per rappresentazioni autonome, alle scene del ricordato tempio di Aphaia a Egina, fino all’apoteosi delle figure plastiche del tempio di Athena Partenos edificato sull’acropoli di Atene tra il 447 ed il 432 a.C.
Fine di una storia. Brevissima. Eppure, davvero lunghissima. 

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