Il mistero di Sperlonga

 


Nel 1957 furono rinvenuti gruppi scultorei frammentari (si sono calcolati circa 15.000 pezzi), alcuni dei quali possedevano volumi giganteschi, nella cosiddetta “grotta di Sperlonga” facente parte della villa del secondo imperatore della stirpe Giulio-Claudia, Tiberio. Tuttavia, assodatone quasi subito lo stile ellenistico, molte rimasero le questioni che accompagnarono l’emersione a nuova luce delle opere plastiche che, presumibilmente, adornavano la “cenatio” tiberiana collocata in un luogo di per sé suggestivo.

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Se esiste una qualità intrinseca della ricerca archeologica, questa è senza dubbio il mistero che spesso circonda opere appartenenti ad un passato lontanissimo, opere che sollecitano la curiosità scientifica, ma anche letteraria e artistica. Tra le tante, le sculture di Sperlonga sono a lungo rimaste in una sorta di limbo. Mi riferisco a vari interrogativi, a partire dal problema della datazione, che riguarda queste come altre opere di chiara matrice stilistica, matrice che non risulta tuttavia sufficiente a costituire una risposta scientificamente apprezzabile al tema della cronologia, della motivazione e del significato.
Proviamo ad esaminare la questione.
Parto da una citazione tratta da un celebre testo di Tonio Hölscher, “Archeologia Classica. Un’introduzione”. L’autore scrive in proposito: “il Gruppo del Laocoonte e le sculture di Sperlonga sono la concreta dimostrazione dei limiti del metodo stilistico, dal momento che, senza una nuova indagine basata su elementi più obbiettivi, difficilmente si troveranno risposte accettabili circa una cronologia determinata esclusivamente su basi stilistiche”.
Il famoso archeologo pone al centro il tema della cronologia che non solo è indispensabile per attribuire una datazione certa, ma assume funzione basilare per comprendere anche l’origine delle opere, alcune delle quali attribuite, per la firma riconosciuta su una di esse, agli scultori rodii Hagesandros, Athanadoros e Polydoros, gli stessi che realizzarono il Gruppo del Laocoonte – di qui il riferimento di Hölscher – opere che, terzo problema, non è chiaro se siano originali o copie romane di originali greci in bronzo che potrebbero risalire al periodo del barocco ellenistico.
Tuttavia, almeno per uno dei gruppi scultorei in questione, se non è possibile indicare la cronologia, è attestabile il fatto che si tratti di una copia di originale bronzeo che si trovava allocato sulla spina dell’ippodromo di Costantinopoli. Ed è il gruppo firmato dai tre artisti sopra indicati. Sembrerebbe comparire, dunque, una parziale soluzione al tema critico evocato. 
Sarebbe troppo semplice. 
E poi, troppo presto: la riservo per l’epilogo.
Intanto, si possono indicare i gruppi scultorei principali in quattro rappresentazioni che attengono le vicende mitiche di Odisseo, tanto da aver lasciato sorgere per le opere nel loro complesso l’appellativo di “Odissea di marmo”. 
D’altra parte, l’appellativo risulta limitato poichè solo due gruppi sono riferibili al secondo poema omerico: il gruppo di Scilla e l’accecamento di Polifemo; gli altri due, Ulisse che regge il corpo di Achille (del quale il celebre gruppo del Pasquino sarebbe una copia) e Ulisse e Diomede con il Palladio, sono rinvenibili come episodi dell’Iliade. 
Quindi, un’Iliade di marmo. 
Un quinto gruppo, invece, si discosta dalla relazione omerica con la figura di Odisseo: si tratta del Ratto di Ganimede, un’opera che probabilmente era posta sulla sommità della grotta, pressappoco sopra la chiave di volta dell’arco naturale che la costituisce. Una presenza che si attesta nell’Iliade (Giove che, affascinato dalla bellezza del giovane, lo rapisce dopo essersi reso irriconoscibile sotto la forma di un’aquila) ma che appare esogena al contesto. Evidenza che farebbe ritenere i gruppi parzialmente ricostruiti della grotta come esemplari non esaustivi dell’intero programma figurativo, forse talmente ampio da includervi anche il citato Laocoonte.
Si suppone che Tiberio, appassionato collezionista ed esperto dell’arte greca, abbia conosciuto le opere che venivano realizzate a Rodi dai citati artisti e ne abbia commissionato la realizzazione facendo riferimento al mito di Odisseo dal quale Tiberio stesso vantava la discendenza attraverso Telegono, figlio dell’eroe omerico e di Circe, le cui gesta tragiche vennero narrate nella perduta Telegonia, dando nel contempo vita alla figura di Italo, figlio di Telegono e di Penelope, Italo che avrebbe anche il ruolo di fondatore di Tuscolo e di Preneste oltre che essere incarnazione  mitica dell’eroe eponimo della penisola Italica.
L’intreccio, quando si tocca il mito e la simbologia delle raffigurazioni, diventa ancora più complesso. Perché se da una parte, il mito di Odisseo che acceca Polifemo può essere letto come espressione della volontà umana che riesce a vincere le forze imponenti del destino, dall’altra, l’episodio animato dal mostro Scilla sembra vivificare l’ineluttabilità, l’invincibilità del destino, contraddicendo o interpretando in chiave dualistica il tema della fortuna. Allo stesso modo, Achille non sfugge al destino mentre Diomede, che aveva osato sfidare gli Dei ferendo Afrodite ad una mano, mentre questa tentava di sottrarre Enea alla furia dell’eroe acheo, riesce ad impossessarsi del Palladio che proteggeva Troia. 
Si tratta di una lettura che al momento emerge solo come suggestione, in un’estemporanea ricostruzione che ho provato ad aggiungere proditoriamente.
In ogni caso, si tratta di una lettura che lo stile ellenistico delle opere suscita, attraverso una piena e vibrante rappresentazione drammatica delle vicende mitiche, sapientemente colorite di pathos, capaci di attrarre lo spettatore in un ritmo narrativo intenso, arrestato nell’attimo fatale del compimento lirico.
È il caso della lotta strenua e tremenda, violenta e disperata, tra Odisseo e i suoi marinai contro il mostro Scilla che afferra, divora, uccide. 
È il caso dell’estremo momento in cui Odisseo, con l’aiuto di due compagni, ci accinge ad accecare il ciclope Polifemo ormai inerte a causa del vino il cui otre vuoto è retto da un terzo compagno dell’eroe omerico. 
È il caso di Odisseo che regge a fatica, quasi in un atto di evocazione fisica del dolore e del patimento, il corpo pesante, nel suo moto inanimato e drammatico verso il basso, di un Achille ormai addormentato nel sonno della morte. 
Ed è infine il caso del gruppo che raffigura il ratto del Palladio, con i due eroi colti nell’attimo di massima eccitazione, il momento della fuga e del trafugamento ardito.
Ora, sulla datazione è corretto ricordare che almeno due scuole di pensiero si sono contrapposte: una sostiene che si tratti di originali greci realizzati nel II-I secolo a.C., mentre l’altra invece ritiene che le opere vennero realizzate nel I secolo d.C. con lo scopo esclusivo di decorare la grotta. Potrei fermarmi a questo punto, lasciando irrisolta la questione della cronologia e dell’origine dei gruppi scultorei. Se non che, come avevo anticipato, esiste una soluzione parziale al tema critico.
Impegnandomi in una modesta ricerca ho rintracciato un’intervista rilasciata al quotidiano La Repubblica nel 1996 dal professor Bernard Andreae, all’epoca direttore dell’istituto Archeologico Germanico di Roma il quale, dopo essersi occupato della ricostruzione dei resti del gruppo di Odisseo e Scilla in occasione di una mostra allestita in quell’anno nel Palazzo delle Esposizioni di Roma e intitolata “Ulisse, il mito e la memoria”, affermava:
"Questo gruppo era una copia romana fatta da scultori di Rodi di un grande bronzo che finì nell' ippodromo di Costantinopoli. Campeggiava nella spina centrale, proprio di fianco all' obelisco che c'è ancora. La scultura era lì al tempo dei crociati: furono loro, nel 1205, a fonderla per farne monete. Per fortuna, però, Tiberio nei primi anni dopo Cristo ne aveva fatto realizzare una copia per convincere la sua gente che lui, essendo uno della gens Claudia, tra gli antenati non aveva solo Enea ma anche Ulisse. Dalla cava turca di Afyon, da dove arrivò il marmo agli scultori di Tiberio, è poi saltata fuori una piccola copia di quella scultura - solo un quinto dell'originale - quanto però bastava a capire com'era, e com'era posizionato, il busto e il volto di Scilla che ci mancavano. Da allora in poi, una fortuna dopo l'altra: nel settembre dell'anno scorso mi fu fatto vedere un bel mosaico trovato a Gubbio che avremo in mostra: aveva proprio questo gruppo come soggetto. Il mese dopo, a ottobre, al museo di Istanbul rintracciammo un'agata di 16 millimetri con inciso su l'intero ippodromo di Costantinopoli e tutti i suoi capolavori, Scilla compresa. La nostra indagine era finita!".
Dunque, affermazioni che forniscono indicazioni e relative fonti. Azzardo quindi l’ipotesi: se anche gli altri gruppi fossero copie di originali bronzei divenuti, chissà quando e come, anch’essi monete? D’altronde, la suggestione relativa al destino, alla fortuna, al fato, evocata poco prima, non risulterebbe solo un vagheggiamento se si provasse a pensare al programma narrativo che Tiberio potrebbe aver inteso realizzare, fornendo un costrutto unitario all’impianto scenico della sua grotta-ninfeo. 
Sovviene in aiuto, sempre nella medesima intervista citata, nuovamente il professor Andreae con queste parole:
"Abbiamo voluto ricreare quel che Tiberio voleva comunicare alla sua gente: senza il ratto di Ganimede che portò all'ira di Era che portò al giudizio di Paride che portò al rapimento di Elena che portò alla guerra di Troia che portò alla sua distruzione che portò alla fuga di Enea che portò alla fondazione di Roma, lui - Tiberio - non ci sarebbe stato. Fu il fato, dunque, a decidere di metterlo su quel trono di imperatore che Augusto non voleva proprio lasciargli"
Seguendo il filo di queste affermazioni, sono obbligato a sostenere quanto riferito a proposito della seconda scuola di pensiero, quella che ritiene le opere realizzate nel I secolo d.C. con lo scopo esclusivo di decorare la grotta. Ma poi, la copia bronzea di Istanbul? E le altre possibili?
I problemi, concatenati, come è evidente rimangono irrisolti: mancano dei tasselli.
Ma era necessario evocarli, tenere vivo il dibattito.
Forse, questa disamina diventerà un utile suggerimento, una traccia, da consegnare a chi possieda mezzi e tempo indispensabili e adatti a venirne a capo.
Nell’infinita lotta contro un silenzio innocente.

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