La parola ci distingue da ogni altro essere vivente, ma non è uno strumento che ci appartiene.
Il linguaggio ci abita.
Con le sue immagini.
Con i suoi pensieri.
Siamo noi ad appartenere alle sue radici, alla sua origine.
Che ci sfugge.
Fintanto che il mistero rimarrà inviolato, teniamo cura alla parola.
Con intelligenza.
Con precisione.
Come l'artigiano che rivela l'oggetto nascosto nella materia.
Talvolta l'espressione artistica affonda le radici nella soggettività di un respiro lirico così denso da colpire e coinvolgere l'osservatore. È raro. Ma accade. È accaduto con Amneris Ulderigi, poetessa di vera e profonda sensibilità, capace di un'inventiva fotografica potente e delicata. In una mostra, recentissima, ha saputo raccontare in immagini la malinconia straziante del trapasso fino a mutarla in presenza che accomuna. Silenzio illuminante, pausa tra parole misurate e gentili.
Confesso un'ormai radicata interpretazione del fare artistico dalla quale non riesco a distogliere il pensiero: l'arte non è mai atto che si conclude nella soggettività da cui promana.
Ogni effetto artistico risiede in un sostrato culturale comune, complesso, diffuso, avvertito maggiormente dagli artisti che posseggono talento creativo e coraggio introspettivo.
Esprimono i mondi dei sensi e dei sentimenti, non quelli delle semplici emozioni.
Come "spugne" gli artisti percepiscono più profondamente di altri.
Poi, l'osservatore d'immagini, l'ascoltatore di musica, il lettore di versi e di prosa, si lascia permeare da un soffio nel quale scopre una presenza che già lo abitava, come eco ancestrale, possesso antropologico, misura dell'umano.
E l'arte può prendere la scena.
Si tratta di un distacco e di un transito: dall'artista al pubblico.
L'opera non appartiene più al genio creativo: lo abbandona per essere parte di innumerevoli tracce collettive.
L'espressione lirica, quel doloroso rivolgersi al sé, non appare come il ritrarsi in gretto solipsismo, in autocompatimento egoistico, in invocazione sussurrata alla propria coscienza: al contrario è un appello a riconoscersi nella mutevolezza nascosta, nella parola improvvisa che ci desta, nel racconto del viaggio, nell'esperienza che segna, nel fondarsi dell'interpretazione.
Il poeta lo sa.
Qual'è l'origine della creatività?
Impossibile trovarla.
Eppure, non si prescinde da un "esserci" implacabile.
Ci accompagna.
Infine, muta in un oscuro scomparire.
La domanda di senso prende forma, diventa ricerca, è un graffio dilaniante.
Aiuta leggere Heidegger nel suo "Sentieri interrotti":
[...] Origine significa qui ciò da cui e per cui una cosa è ciò che è ed è come è... C’è l’opera e c’è l’artista solo in quanto c’è l’arte come loro origine? Qualunque risposta si dia a questi interrogativi il problema dell’origine dell’opera d’arte assume la forma dell’essenza dell’arte.
L'essenza, appunto.
Come si può raggiungerla?
Non sembri ameno che in questa ricerca "estetica" si racchiuda quella domanda di senso poc'anzi dichiarata: al fondo di quell'origine non può che giacere la verità del tutto.
E qui occorre attingere a Goethe e al suo "Faust", già chiamato in causa nel mio ben più modesto "Le Streghe di Shakespeare":
[...] Solo la donna possiede il coraggio spietato del Dio, perché può coglierne l’ordine e non la follia. Solo una donna consapevole può varcare il confine tra il sensibile e il soprasensibile, il passaggio dalla materia allo spirito, dalla forma al significato ultimo. Che cosa fa dire Goethe a Mefistofele nel Faust: […] Esito a disvelar l'alto mistero. Regnano Dee in solitario impero, Spazio né tempo intorno a esse appare. Solo parlarne provi turbamento. Sono le "Madri"! FAUST (sussultando spaventato): Madri! MEFISTOFELE: N'hai spavento! FAUST: Madri! Le Madri! Singolare accento! MEFISTOFELE: Singolare davvero. Dee sconosciute all'uom, da noi sono volentier taciute. Cerca giù negli abissi dove stanno; è colpa tua se ci abbisogneranno. […]
L'origine, l'essenza: anelito struggente.
Ecco: è in quest'estrema tensione che si ravvede l'empito dell'arte; è di quest'estrema tensione che si nutre l'arte.
L'estremo come necessario: la ricerca delle radici impone di scavare a mani nude, di immergerle nella terra, di sentirne il calore vitale, la consistenza, l'humus che alimenta la vita, fino alle propaggini nascoste del fiore, il confine, l'inizio, il primo movimento.
Il buio della terra, il silenzio della terra, lì giace il segreto della luce, lì prende forma il riposto delle parole.
Così, non c'è da meravigliarsi che a Recanati, la città di Giacomo Leopardi, sia comparsa una piccola rarità, un'apparizione dell'essenza, un richiamo alle origini, la delicata espressione della domanda di senso che si rivolge alla verità.
Questo, essenzialmente questo è il fondo che soggiace alle immagini realizzate da Amneris Ulderigi, recanatese, poetessa, creativa, animatrice culturale, persona di rara sensibilità.
Una mostra, un titolo, "E l'anima vola... Respiri di cielo. Relazioni d'amore" e soprattutto quelle immagini, straordinario racconto di affetti, di storie, di un vissuto che ha l'espressione di un sorriso, l'intensità di uno sguardo, anche nel dolore, nella fragilità, nella conclusione, nella possibilità, nella speranza.
Così, il freddo di una lastra capace di illuminare la materia sotto la pelle, il simbolo contemporaneo dell'antico oracolo, perde la sua funzione tecnica, abbandona la sua parola inospitale, dimentica la sua figura di spettro fino a trasformarsi in traccia originale, in atto di memoria, in presenza che sboccia ancora da inaspettate radici rimaste sottili.
Una sorta di rizoma che si prolunga in mille direzioni, allargandosi, infittendosi, colmando lo spazio e respingendo il buio, riannodando fili solo apparentemente spezzati.
Così, il segno compie un nuovo percorso.
E il simbolo diventa immagine: ricompare.
E risponde alla domanda di senso, antica, incessante: si tratta di una "rifondazione".
Insufficiente?
Priva della parola?
Relegata al suo apparire silenzioso?
Forse.
Ma è tutto ciò che l'arte può sostenere.
Tuttavia, non risiede nell'oggetto: lo supera perchè appello alla parola racchiusa nella coscienza.
Transita.
Deve compiere il suo cammino.
Non impone ma disvela.
Dunque, giunge alla "riconciliazione": non più lacrima che annebbia, che toglie nitidezza per farsi forma dello smarrimento.
No.
È invece ritorno nel mondo delle parole mai pronunciate, delle frasi serbate nel segreto di sussurri.
Nasce un dialogo nuovo.
Non è, allora, sensazione ma atto veridico.
Nel pensiero di Emanuele Severino, il più cospicuo tra i filosofi contemporanei, il "nulla" è privo di fondamento e, per conseguenza, "l'essere" è eterno: "Eterni sono ogni nostro sentimento e pensiero".
In una delle sue molte e ormai celebri conferenze, spiegò:
[...] Noi siamo abituati a considerare l’uomo come quella povera cosa che, per milioni di anni non è esistita, poi incomincia ad esistere, e poi non esisterà più e poi passerà ancora gran tempo finché l’entropia cosmica non condurrà a ciò che Leopardi la quieta e il silenzio altissimo del nulla. Direi che perlopiù noi ci muoviamo in questo modo, nel considerare l’uomo. Le scienze biologiche, antropologiche, rafforzano questa nostra convinzione. Però la filosofia aveva incominciato a portare innanzi un concetto dell’esser uomo ben più ampio di questo. Perché quelle epoche remote, rispetto alle quali noi diciamo di esser sopraggiunti ad un certo momento, e quelle epoche forse ancor più remote, nel futuro, rispetto a cui diciamo che non ci saremo più, non sono forse qui, vicinissime, proprio perché ne parliamo, e si manifestano, perché se non si manifestassero non potremmo nemmeno parlarne? Allora questo sarebbe un primo pilastro che avrebbe bisogno di ben altro commento da tener presente nel mio tentativo di spiegare il sopraggiungere degli eterni. Gli eterni appaiono in questo apparire che non è semplicemente una nostra coscienza individuale misurabile, magari identificabile al cervello che si mette sul tavolo anatomico e si dice “questa è la mente di chi era il possessore di questo cervello”. Ma anche qui le cose non vanno perché il cervello che è sul tavolo anatomico è all’interno di un laboratorio, e tutta una serie di cose che appaiono, che sono incluse nell’apparire che a questo punto non possiamo più chiamare come nostra coscienza, ma merita il nome di apparire trascendentale.
Severino che meglio e più d'altri ha compreso la radicalità del nichilismo leopardiano:
[...] Nonostante il ricorrente interesse per il pensiero di Leopardi (la cui importanza era già stata colta da Schopenhauer e da Nietzsche) non si comprende ancora il suo carattere radicalmente decisivo, cioè la sua capacità di indicare - con una esplicitezza che soli in pochi altri casi (Nietzsche, Gentile) la filosofia saprà raggiungere - il fondamento in base al quale ogni verità immutabile ed eterna e ogni epistéme devono essere negate.
La stessa radicalità che si scorge nelle immagini che propone Amneris Ulderigi: potenti e disperate nella loro crudezza, coraggiose nella visione.
Eppure, non è questa l'incessante contraddizione dell'essere umano?
La relazione perpetua tra la coscienza dell'esistenza e la solitudine infelice che rammenta l'inarrestabile declino?
Dovrei, per questa via, trarne la tesi di un sentire parallelo tra Amneris Ulderigi e il suo illustre conterraneo, lo straordinario Giacomo Leopardi che Severino pone a modello dell'autentico nichilismo.
Ma non è così.
In Leopardi l'atto poetico, nella sua forma più alta, coincide con l'illusione che allontana l'incontro con la "ragione": il rimedio al "nulla abissale" consiste nel sottrarsi alla sua verità prendendo rifugio in un altrove che possiede consistenza infinita ed eterna.
Eppure, quando la poesia è costretta a quell'incontro fatale, quando l'anima si accorge della morte perpetua, accade qualcosa, come un guizzo grandioso che Emanuele Severino indica in questo:
«L'infinito e l'eterno diventano cioè la "forza" con cui la poesia del "genio" canta la nullità delle cose.» - La filosofia dai Greci al nostro tempo
Invece, nell'artista di queste pagine, l'espressione poetica, così mirabilmente condensata nelle immagini che costituiscono la sua recentissima riflessione, non giunge fino alla negazione ma è apertura alla speranza, una sorta di "divenire" necessario all'essenza, un profondo raccoglimento religioso ben chiarito dalle parole della stessa Amneris Ulderigi:
[...] Mi sono resa conto che al di là del visibile, c'era di più, altro, che sentivo! Sentimenti capaci di far danzare all'unisono, emozioni, sensazioni, suggestioni particolari. [...] Ho messo le ali ai pensieri, per ascendere al profondo, inesauribile mistero dell'eternità, dove l'anima vola, sopra le nuvole, dove il giorno non sa del mattino, le stelle della notte... là dove il Cielo non ha voce di tuono...là dove il Cielo semplicemente è, esiste da sempre come mistero infinito, eterno.
La differenza si fonda su un afflato spirituale intenso: un'espressione di fede che trasforma quelle immagini in qualcos'altro ancora, in un atto definitivo che si pone sul margine estremo, quell'assenza di luce sullo sfondo che simboleggia la possibilità e non l'annullamento.
L'arte come tramite, l'arte che nel contemporaneo lambisce il sacro, lo ripropone, lo lascia riemergere.
È questa, direi, la traccia più feconda dell'opera di Amneris Ulderigi.
Una traccia che si lascia seguire anche nelle sua fragilità, poichè è cosciente di poter incontrare e viaggiare a fianco di modelli di pensiero paralleli, in un viaggio che rimane ricco di suggestioni.
Infatti, seguendola, quella traccia può rivelare altro, forse illudendosi poeticamente, forse allargando le maglie di quel confine, filosoficamente.
Sovvengono, a riprova, ancora le parole di Emanuele Severino, alle quali lascio una conclusione che non saprei dare altrimenti.
Eccole:
[...] Cosa si intende allora, secondo il suo pensiero, con Gloria? «L’ uomo non solo è l’ eterno apparire degli eterni, ma è una luce che si allarga senza fine sulla distesa degli eterni. Questo infinito dispiegamento è la Gloria». Le pongo una domanda antica. Se questa è la vera dimensione, perché ci sono male e sofferenza? «La Gioia è concreta perché non è oblio del dolore, ma lo conserva integralmente, oltrepassandolo. Senza il dolore non ci sarebbe la Gioia». Scusi professore, ma la sua Gioia mi sembra Dio… «Si tratta di intendersi sul significato della parola Dio. Se Dio non è il demiurgo ma l’ apparire infinito degli eterni, allora, sì, la Gioia è Dio. Ma allora Dio è essenzialmente diverso da quello della tradizione religiosa e filosofica. E poi Dio non sta in un altro mondo: nel profondo noi siamo la Gioia, ovvero l’oltrepassamento della totalità delle contraddizioni».