Il viaggio nel tempo

Ragionare di espressioni artistiche mi appassiona: celano sempre le tracce di un mistero, raccontano, sorprendono e attraggono, provocano riflessioni che sovente conducono lontano, in un'affascinante e imprevedibile avventura del pensiero. È stato di nuovo così quando ho cominciato a osservare le opere di Nino Camardo, classe 1949, artista italiano d'insigne produzione pittorica. E nell’accingermi alla stesura di questo testo mi ero orientato, inizialmente, verso un altro titolo che contenesse l’espressione “cronache nel tempo”. Per quale ragione? Eccola.

Nelle immense stratificazioni d’immagini che costellano il patrimonio visivo di ogni essere umano, esistono “stanze” mentali disposte ad aprire le loro porte all’analogia, a costituire modelli di classificazione in grado di fornire struttura al riconoscimento e, per questa via, dettare le parole.
D’altra parte, la relazione tra parola e immagine è antica e profonda.
Una frase, tratta dal “Filebo” di Platone, lascia intendere quanto già fosse radicata l’esigenza di mettere in relazione i due ambiti espressivi spingendosi fino alle pendici del pensiero: 
«… Sapienti immagini il filosofo vuole dipingere nell’anima e di quelle farla innamorare»
Nell’umanesimo, fino al ‘600 con Giordano Bruno, la percezione del rapporto tra pensiero e immagine era stata compresa: l’essere umano pensa per immagini.
Dunque, non esistono immagini perché ci sono i pittori ma esistono i pittori perché la coscienza produce immagini.
Questo spiega anche il celebre “Ut pictura poesis” che da Simonide di Ceo, passando per Plutarco, resta infisso nell’Ars Poetica di Orazio
«La pittura è una poesia muta e la poesia una pittura parlante»
Infine, la figura dell’uroboro, il simbolico animale, un serpente in genere, che inghiotte la propria coda per manifestare l’unità conchiusa ovvero, a mio parere, anche la contraddittorietà di un ciclo che non può erompere oltre se stesso, che non compie la relazione ovvero che indica una relazione inscindibile: la verità è nel tutto e il tutto è una relazione.


Proposti questi cenni, tuttavia, né il linguaggio e né l’immagine risolvono il più alto mistero: l’idea - si rimane sullo stesso territorio: ἰδέα si traduce in «aspetto, forma, apparenza», da ἰδεῖν «vedere» - rimane imperfetta perché le manca la paolina “visio facialis”, la visione perfetta della verità in Dio.
Dio come verità.
Questi riferimenti che affondano le radici in un tempo che di gran lunga ha preceduto la fotografia ma che s’è intriso dei suoi presupposti artistici e della parola che “vuole dipingere”, appartengono alla ricerca fin qui compiuta da Nino Camardo, per convenzione definito artista “naïf” allo scopo di collocarlo in una di quelle “stanze mentali” disposte a suscitare, più che a giustificare, l’esigenza della classificazione, uno dei molti modi di costringere l’espressione artistica entro vuote separatezze, d’isolarla in gruppi, conventicole, circoli, paradigmi.
Al contrario, forse solo per questo è “naïf”, la pittura di Camardo rifiuta ab origine le convenzioni generandosi sulle tracce raccolte lungo la scia del tempo, tra migliaia di espressioni figurative, iconiche e narrative, proiettate tuttavia sul problema della rappresentazione come potenza che supera in immediatezza e consistenza la parola, anche la parola poetica.
E che mai per evidente necessità, può rifiutare la “relazione” poc’anzi accennata, pur escludendola in un sistema che si presenta, infine, come modello originale e separato: il paradosso di ogni atto artistico riconoscibile come tale.
Già, il paradosso: non prescinde dal passato, lo attraversa, lo assorbe e tuttavia, nel farsi espressione creativa, lo rigetta metabolizzato, capace di suscitare reminiscenze eppure di apparire inedito, singolare, geniale.


Ecco la ragione per la quale osservare opere come “Cavalli imbizzarriti” del 2015 (in testa a quest'articolo, accanto al titolo) oppure “Trofeo del gallo d’oro” realizzato nel 2014 (qui sopra), l’immagine si fa parola e suscita il sostantivo “cronache” al quale affiancherei “medioevali” risalendo fino alla fascinazione che promana dalle opere di un altro italiano celebre sette secoli fa, Paolo Uccello con le sue celebri figure impegnate in battaglie e strenue lotte contro animali mitologici e battute notturne di caccia, con quei volumi che riempiono lo spazio bidimensionale senza tentare di forzarne la natura.
 

Così, Camardo, consapevole che la soglia dell’immagine non possa essere attraversata, che la “visio facialis” rimarrà illusorio sogno metafisico a lungo anelato e mai realizzabile, dà corpo a una pittura in grado di separarsi dallo specioso confronto tra il figurativo e il non-figurativo fino ad approdare a uno spazio di libertà che, almeno sul piano espressivo, contiene i termini dell’assoluto.
Ancora una parola fatale: l’assoluto.
Qui risuonano domande filosofiche di matrice hegeliana: soltanto nell’espressione artistica è possibile fare esperienza, mostrare qualcosa che non può apparire sensibilmente in un altro modo? 
L’arte è ancora essenziale nell’epoca della scienza, nell’età in cui il fare artistico è un passato riassorbito nel concetto?
Può apparire insolito il riferimento a Hegel, il cui pensiero è stato abbandonato, nel ‘900, in favore della crisi nichilista di Nietzsche e della visione esistenzialista di Heidegger: la metafisica è un errore, la verità è un abisso inconoscibile.
E qui allora non possiamo che vedere, ancora una volta, il fare artistico nella dimensione intimista di un confine invalicabile.
Dunque, amen: è strenua, vana ricerca.
Oppure, mantenendo la visione hegeliana della relazione dialettica, la verità si ripropone nel fenomeno che, condotto alla dimensione del concetto, non perde se stesso nel trapasso ma si manifesta, ancora una volta, nei termini della relazione.
Ebbene, non si mostra evidente come fin qui la vera protagonista, già richiamata esplicitamente, sia proprio la “relazione”, quel rapporto che annulla il soggetto e l’oggetto perché non più entità separate ma inscindibili presenze?
Il dipinto non è più un oggetto separato che appaia all’osservatore: è il suo stesso mondo, è la medesima espressione mentale capace di raccontare, di fare cronaca di immagini rinnovate nel processo estetico-concettuale.
La libertà dunque è un “ab-solutus” cioè slegato da ogni riferimento reale, un significante che non rimanda a un puntuale significato, libero di dare forma e colore a mondi che fanno tesoro del passato e lo superano continuamente fin dal loro apparire. 
Per questa ragione, per questa reminiscenza della lezione hegeliana, la “cronaca” che era nell’ipotesi di titolo iniziale ha lasciato il campo al “viaggio”.
Ecco che finalmente emerge densamente il senso dei testi pittorici che attraversano la creatività di Nino Camardo: l’appassionato rammentare che la presenza, la parola, l’immagine, altro non sono che un “ex-periri” senza soluzione di continuità.
L’esperienza e l’esperimento: con questa prospettiva nascono le tele di Nino Camardo.
Un’esperienza che si forma direttamente sulla tela mentre le figure e i luoghi prendono forma abbandonando l’inconsistente esigenza di un tecnica realista per tentare vie nuove ed egualmente antiche, con la rara capacità di raccogliere lungo il percorso l’arte plastica tardoantica che acutamente Ranuccio Bianchi Bandinelli definì “arte plebea”: un modello che si protrasse per secoli, passando per l’arte iconica costantinopolitana fino a Wiligelmo e Benedetto Antelami e poi nella pittura gotica e nei codici miniati e nei libri delle “Ore” la cui tradizione attraversa il medioevo e giunge fino al ‘400.

  
È sufficiente qui rammentare “La famiglia” del 1976 e “I fidanzati” del 1978, esempi illuminanti di una fusione tra l’icona e l’arte gotica.


Ma non basta.
Certo, l’afflato si rivolge ai “Fauves” e ancor prima a Gauguin e al gruppo dei "Nabis", a van Gogh e Munch e naturalmente al celeberrimo fondatore, il “Doganiere” Henri Rousseau. E, ancora, emergono le genuine, sognanti immagini di Marc Chagall


E perché non citare anche il nostro Ligabue: tutto si tiene osservando ammirati “La parata al circo” del 2010 oppure “Il miraggio del cavaliere” che appare nel 2015.

  
La tela recupera la sua funzione primaria, si appresta ad accogliere la purezza del colore netto, solido, corporeo e luminoso che s’uniforma al disegno essenziale, un significante che trascende il simbolico poiché di questo non ha bisogno: quei mondi tracciati da Nino Camardo non riducono se stessi a un mero richiamo ma fondano un’estetica vissuta, come più volte ribadito e come ormai dovrebbe essere chiaro, in sufficiente autonomia.
Ancora paradossi, direi necessari: nessun “viaggio nel tempo” può prescindere dai conflitti ineluttabili nell’esistenza. 
E dunque li accoglie e li rimacina, li suggerisce, li ricorda, li cita, come in una formidabile sinossi della storia dell’arte. 
Come nel "La famiglia dei contadini al mare" del 2015.


Così, Camardo raggiunge lo scopo che non aveva previsto, quella dimensione di un “oltre” che egli tendeva a rigettare per esprimere autenticamente l’effetto del sostrato imponente di ricordi accumulati in immagini: quel “mucchio” prende corpo in un ordine e si staglia, ineluttabilmente, accanto alla semplicità (che nel caso di Camardo non è mai semplificazione) del tratto pittorico.
Le opere di Nino Camardo, dunque, sono l’apertura verso un mondo originale che porta con sé gli echi del tempo in una formidabile quanto inaspettata sintesi.
L’effetto è di un’intransigente chiarezza che non lascia modo a nessuna imitazione.
La linearità tumultuosa e travolgente della cadenza temporale esaurisce il suo processo in un’ipostasi di fronte alla quale si arresta.
Con Camardo si assiste alla nascita di un’arte che ha la forza di sostenersi in solitaria amicizia con il tempo.
Vale dunque una frase di Mark Rothko
«…Un dipinto non è un’immagine di un’esperienza: è un’esperienza».


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