La città 'potenziale'

 

Vibo Valentia, curiosa, affascinante città. Come ogni luogo, possiede un'anima, radicata e profonda, eppure sfaccettata, mutevole, sfuggente. In apparenza si lascia udire con una voce spavalda. Eppure, i suoi occhi scuri, abissali, tratteggiati come un'onda estenuata, celano altro: appello, invocazione, preghiera intensa trattenuta nel pudore, nella dignità di un orgoglio ferito dal tempo, racchiuso in una memoria silenziosa che solo l'intimità dell'ascolto può rivelare. 

Ho un amico che conosce molto bene la Calabria.
L'ha vissuta. 
Attraversandola in lungo e in largo, per lavoro: un lavoro faticoso che tuttavia lo ha reso partecipe di mille storie e di memorabili immagini.
Mi ha confidato, qualche giorno fa, da catanzarese a catanzarese: "Vibo Valentia possiede il centro storico più affascinante di tutta la nostra regione" .
Aggiungendo: "... Peccato, nessuno è riuscito mai a valorizzarlo, a trasformarlo in ricchezza culturale e commerciale".
Ha ragione.
Sono a Vibo da quasi un quindicennio.
Ho scoperto il delicato piacere di incontrarla, la città, a passeggio tra la luce leggera delle vie di pietra antica, tra silenzi accoglienti che rintoccano i passi e suscitano l'accadere del pensiero.
Le sono debitore di storie importanti, felici e dolorose, definitive, imprescindibili: l'incanto dell'amore; l'avventura della conoscenza e della speculazione intellettuale; la desolazione nella perdita; l'entusiasmo nell'amicizia.
La città è sempre lì, sullo sfondo: mi ha accolto, accompagnato, taciturna e sorniona.
Talvolta, da "Piazza Municipio" spingendomi fino al suo apice, salendo dal "Corso" alle mura del "Castello".
Alla prima aria di primavera, quando già si scorge l'estate, lassù si fa musica, sul piazzale di un locale all'aperto.
Capita spesso di vedere giovani mingherlini, soverchiati dal loro strumento musicale a tracolla, reduci sorridenti da una lezione al Conservatorio.
La "scuola", di ogni ordine e grado, qui a Vibo è una cosa seria: per chi insegna e per chi apprende.
Non è solo passaggio necessario ma impronta permanente.
Come se si trattasse di un omaggio alla memoria della città, antichissima e disseminata ovunque.
Oppure, il riscatto come effetto di un senso di colpa per le sue vestigia abbandonate all'incuria.
Accade per alcuni palazzi di straordinaria valenza architettonica e storica: Palazzo "Gagliardi - de Riso" è solo un esempio tra i molti.


Espressione architettonica di notevole valore, costruito tra il XVIII e il XIX secolo e caratterizzato da uno stile "rinascimentale", il palazzo venne "salvato" da Enzo Romeo, primo presidente, negli anni di fine '900, della "giovane" Provincia di Vibo Valentia appena istituita: lo acquistò al patrimonio pubblico della città ed oggi quest'opera è oggetto di studi appassionati, come in anni recenti è accaduto al Politecnico di Milano.


Enzo Romeo è una figura che mai ha smesso di ricevere la stima incontrastata dei suoi concittadini e che tutt'ora incarna la speranza di un rilancio necessario quanto possibile: lo attesta la sua onestà politica, la sua autorevolezza amministrativa e soprattutto la passione autentica che nutre per Vibo Valentia. 
Malinconia? 
Tutt'altro.
Seppure radicato in un cenno nostalgico, in lui si coglie un sentimento che non sfocia mai in rassegnazione: si tratta invece di un afflato costantemente rivolto al futuro.


Così, partendo anche dalle parole di Enzo Romeo, ho cercato di scoprirla questa strana, curiosa città posta alla "periferia meridionale dell'Impero", persino raccontandola, per riflessi testuali sparsi in un romanzo complesso intitolato "Le Streghe di Shakespeare":
[...] All’uscita dal ristorante l’aria si fece sentire fredda e pungente ma come fosse già in ritirata. Ai primi di aprile si avverte l’incombere della primavera. Al Sud, i cambi di stagione sono sempre impetuosi: infonde una piacevole energia avvertire la consistenza della loro insolente irruzione. Il vice questore Kinnin occupava un attico dal quale si poteva godere una vista panoramica della piccola Vibo illuminata dolcemente. Una città dall’andamento regolare, dominata da un antico castello normanno-svevo le cui prime pietre risalgono al secolo mille. [...] 

E ancora:
[...] Una delle strade che porta al Castello, in salita, guarda a sinistra una spettacolare vallata, detta del Mesima. La vista è di quelle che generano vertigine, come in molti casi da queste parti, in Calabria. Strana terra, dove tutto è estremo, i caratteri delle persone, i colori, i fenomeni naturali, le voci, i suoni, le altezze, il mare, e ora anche questa vallata che si apre davanti agli occhi, all’improvviso, come un altro mondo. C’è qualcosa di struggente e d’immenso. Tutto sommato, ne ho vista ben poca di questa terra. La zona ionica la conosco meglio per via delle estati al mare. Sono nato a Milano dove ho vissuto parte dell’infanzia. Poi a Modena, seguendo le tappe della carriera di mio padre. Quando tornò in Calabria, dove era nato, io mi ero già messo in giro e non sono tornato che raramente, per visite fugaci a Cosenza. Me ne pento: adesso mi resterà il ricordo di una terra nella quale mio padre ha trovato la morte, per mano di qualcuno. C’è qualcosa di doloroso e di violento in questi paesaggi, nella gente di qui, anche nella storia della Calabria. Eppure, avverto un’affinità, il sapore amaro e robusto di radici e di terra grassa: quasi vorrei assaggiarla e chiudere gli occhi per sentirne tutto il gusto. È una terra pesante, nulla a che vedere col mio modo di pensare e di vivere. Bisogna sfuggirle per provare il piacere di ritornare. Ma bisogna anche saperla vivere, accettarne le vicende contraddittorie, le suggestioni antiche, lo spirito, la teatralità della gente e il loro senso tragico, la carnalità e le passioni, il modo in cui questo popolo riesce ad abbandonarsi alle “streghe di Shakespeare”. Una genia complessa, che incarna le asprezze pericolose della pietra prima di essere levigata dalle onde del mare, dal sole, dal vento e dalla pioggia. [...] 

Vibo Valentia è come una macchina del tempo.
Amici mi hanno aiutato a capirne i tratti del carattere, aspri e ingenui, sorridenti e disperati, espressioni di orgogliose fragilità e di volontà ansiose che affondano le radici fino a luoghi sopiti, luoghi in perenne attesa.
In particolare, due amici che appartengono all'erudita e appassionata intelligenza di Vibo: Raffaella Cosentino e Luigi "Gino" Achille.
Architetti entrambi, non a caso: il loro modo di "vedere" la città mi ha contagiato.
Così, è nato un appellativo che appare calzante: Vibo, la città di tutte le epoche
Le planimetrie "storiche" di Raffaella Cosentino, realizzate a mano, il disegno tecnico di una volta, sono un capolavoro di sapienza e passione: meriterebbero di essere esposte in un edificio pubblico a beneficio della città intera.


Al primo istante mi sono apparse un racconto silenzioso del passato, un racconto che nella tecnica racchiude un'immagine insolita della città, una sorta di spettacolare quadro d'insieme capace di raccoglierne, in un'unica visuale, gli strati del tempo.


Le immagini nei video rendono solo in minima parte l'emozione di vederle dal vivo. 


E con quanta passione Raffaella è in grado di coinvolgere chi abbia il piacere di ascoltarla mentre ne fa l'illustrazione. 


Lei che è anche una cultrice d'arte sensibilissima e un'artista che possiede i guizzi e la prontezza tipici dell'espressione contemporanea: le appartiene l'ironia "Dada" unita al gusto "Pop" dalle quali ha tratto alcune godibili citazioni.




Egualmente, riesce a fare sintesi tra l'effetto straniante del "riuso" e la poetica dell'ispirazione: esemplare il caso della della teiera carica di ricordi che ha trasformato in una "presenza" quotidiana, come lei stessa mi ha raccontato con la consueta intensità di sentimenti:
"Questa è la storia di una teiera arrivata da lontano, da un paese meraviglioso, l'Iraq, una terra amara e ricca di storia, cultura e persone con un forte senso di ospitalità. 
Un "souvenir" che il mio caro suocero, Hossin, anni fa, mi consegnò con tutto il suo innato e meraviglioso affetto quando per la prima volta - correva l'anno 1990 - venne in Italia a conoscere la futura moglie del suo primogenito. 
La teiera, questo prezioso oggetto, da allora giaceva silenziosa confinata nell'angolo di un cassetto, ormai rassegnata, la poverina, a non poter assolvere a quello che doveva essere il suo principale scopo: essere la protagonista indiscussa del rito del té, un rito che racchiude ed esprime significati ancestrali, che si perdono nelle notti del tempo. Ma poi un giorno la teiera s'illuminò d'immenso..."

E l'Architetto Achille? 
Anche lui è un altro "artista".
Nel nostro piccolo gruppo di amici, "Gino" è quasi come il mitico "Nestore", il più saggio e più giusto tra gli eroi achei dell'Iliade, quello che sa dispensare consigli con accurata prudenza.
Ma ho detto "quasi": forse è il più entusiasta e combattivo tra noi, ci fa mangiare la polvere se proviamo a stargli dietro.
I suoi disegni sono un altro modo di raccontare la città: non sono luoghi ma ritratti dei luoghi, anche questi unici ed eccezionali.


Alcuni, le cosiddette "distopie", mi hanno attratto più di altri, rammentandomi la sensazione spaziale delle tavole e degli schizzi di Antonio Sant'Elia, indimenticato architetto futurista che scrisse nel suo "Manifesto" del 1914:
[...] Per architettura si deve intendere lo sforzo di armonizzare con libertà e con grande audacia, l'ambiente con l'uomo, cioè rendere il mondo delle cose una proiezione diretta del mondo dello spirito;


Immagini di una città nuova. Eppure, impossibili senza le tracce che la connotano.





D'altronde, se Raffella Cosentino possiede un vero talento per l'opera plastica, Gino Achille ha la vocazione per la scrittura, per la ricerca filologica, per il racconto tratto da segni rimasti in ombra in attesa di essere scoperti: "Cronaca delli accadimenti di un gentiluomo della città di Monteleone di Calabria, dall'a.D. 1757 all'a.D. 1787, da lui stesso narrati" è un gioiello di colta ricostruzione storica e di stupefacente inventiva letteraria. 


E non è da meno, per altri versi, il diario privato e pubblico dal titolo: "Per adulti con riserva".

 
Del resto, non deve sorprendere il riflesso creativo di Gino Achille: è inscritto nelle sue origini. 
Figlio di un artista, Colombo Achille, figura di notevole spicco della Vibo novecentesca e contemporanea, dirigente apicale e manager pubblico, tra i fondatori del Museo Archeologico Statale "Vito Capialbi" - un'altra delle eccellenze di Vibo - ma soprattutto pittore di vastissima produzione, conosciuto in Italia e all'estero, grande animatore culturale del suo tempo. 
Attratto da una poetica impressionista, seppur emendata dalle correnti più innovative dell'avanguardia primo-novecentesca - molte le assonanze con Cézanne - ne ho intuito l'originale tratto lirico. 
Basta osservare le sue opere. 


In modo particolare, i suoi disegni della città, reportage di un "viaggiatore dello spirito".



 
Ecco, queste sono le "voci" della città: la materia viva che la anima entro le maglie di una misurata discrezione alto borghese: da portare in luce.
Già, Vibo Valentia, come descriverla altrimenti?
Come raccontarla se non per queste sensibilità che la compongono e la connotano in un fondo che scorre come un fiume carsico?
Così, quando la curiosità si fa strada, tutto si desidera sapere, dagli aneddoti, piccoli racconti intrisi di mistero che solo i cittadini conoscono e tramandano, fino alla storia codificata negli schemi delle epoche.
Tra le leggende ne rammento una, quella che fa da retroscena semantico a una piccola lapide che si vede in Largo Solari, quando dal Castello ducale si scende prendendo Via Ruggiero: "CAVE A LACHRYMIS COCODRILLI"


Per rievocarne il narrato, faccio riferimento e riporto, in una lunga citazione, lo stralcio di un bell'articolo di Maria Concetta Preta, scrittrice feconda, poetessa sensibile, dotta docente di Lettere antiche presso il Liceo Classico “Morelli” di Vibo, membro della delegazione cittadina del F.A.I.
[...] La piccola lapide troverebbe una spiegazione, alquanto misteriosa e stravagante, in una favola popolare: quella di un monaco agostiniano del vicino convento che divenne in età moderna un carcere, come detto. Il fatto che l’iscrizione fosse stata murata lì vicino ne sarebbe una conferma.
Il complesso degli Agostiniani Calceati risale agli inizi del XV secolo, che è poi l’epoca della redazione epigrafica, a dar fede al Capialbi.
Il monaco in questione si sarebbe chiamato Frà Gerolamo e si narra che fosse un tipo irritabile e solitario, poco propenso a stare con i confratelli.
Si vociferava che trascorresse intere giornate in cella e che praticasse oscure pratiche, recitando formulari in greco antico e in latino: orbene in quell’epoca il greco antico, continuando in Calabria attraverso la cultura bizantina, era comunque poco conosciuto, molto meno del latino che, invece era la lingua ecclesiastica ufficiale.
Probabilmente il monaco aveva pratica con antichi codici e manoscritti che non desiderava svelare a nessuno, perché ci si trovava in un’epoca di superstizione ed era facile esser accusati di stregoneria anche semplicemente se si citavano i sommi autori della paganità.
Si narra che fra’ Girolamo, nel giustificarsi, affermava di recitare preghiere del primo cristianesimo, ma non si capisce bene perché lo facesse chiuso in cella e perché fosse scontroso e restio ad aprirsi ai suoi confratelli che lo esortavano a stare con loro, condividendo le ore canoniche.
Fra’ Girolamo era un monaco davvero inusuale e destava sospetti, dentro e fuori il convento. Si sa che i borghigiani erano gente curiosa e poi la vita nei conventi scatenava la loro fantasia.
Un giorno scoppiò una lite tra Fra’ Girolamo e un conventuale per futili motivi, che divenne un duro scontro, non solo verbale. L’irascibilità portò Fra’ Girolamo a esplodere in escandescenze e dovettero dividerlo dal monaco che lo accusava chissà di cosa ….
Questo monaco, di cui ignoriamo il nome, peraltro giovanissimo, morì giorni dopo, per non precisati motivi, crollando di colpo mentre si stava recando in chiesa.
Nel convento e nella rocca di Monteleone si diffuse la diceria che gli fosse toccata una terribile nemesi e che si fossero avverate le maledizioni scagliate da Fra’ Girolamo al nemico verso cui aveva scatenato la sua proverbiale iracondia: resta da spiegare perché tanta rabbia. Che il giovane monaco, curioso e impulsivo come possono esserlo i giovani, avesse scoperto uno dei tanti segreti celati da Fra’ Girolamo e che volesse ricattarlo?
Passarono alcuni mesi, nei quali immaginiamo quante altre dicerie vennero agitate nei confronti dello strano monaco…. finchè s’imbattè pure lui nella stessa sorte di una morte improvvisa e non certo naturale.
Il suo corpo venne trovato orribilmente martoriato alla testa dopo una caduta dalle scale. Almeno questa fu la versione ufficiale che venne data a quello che aveva tutta l’aria di essere un omicidio in piena regola."
Fin qui la ricostruzione storica. 
Ma si tratta solo dell'antefatto che conduce alla spiegazione delle parole incise sulla lapide.
Prosegue Maria Concetta Preta, peraltro autrice di un cospicuo romanzo "Il segreto della ninfa Scrimbia", altra leggenda vibonese  - che tuttavia lascio alla curiosità di chi vorrà conoscerla attraverso il romanzo - e riannodo il filo del discorso interrotto:
[...] Il popolino monteleonese aveva partecipato accoratamente alle vicende che si verificavano nel convento, ammantato di orrendi misteri e nel quale si erano verificate due morti che avevano tutta l’aria di essere state il risultato di fatti delittuosi. Anche perché il complesso degli Agostiniani era posto proprio nella rocca di Monteleone, alle falde del Castello che, allora, apparteneva ancora agli Angioini.
La fantasia popolare non ha freni inibitori e non conosce ostacoli pur di andare a frugare tra fatti orribili per poi affermare le sue “verità”.
Nacque così una diceria, cioè che, nel colmo della notte, sia nel convento sia nei vicoli della rocca, si udissero voci umane che blateravano parole incomprensibili, simili alle formule rituali pronunciate da Fra’ Girolamo e origliate dai monaci.
Intanto la cella del frate era stata occupata da un nuovo monaco il quale notava l’avverarsi di strani fenomeni: le lucerne si accendevano da sole nel cuor della notte, il letto pareva tremare, il mobilio vibrava, le finestre si spalancavano.
Era il chiaro segno di presenze arcane che si manifestavano all’ignaro inquilino della cella. Il priore dovette celebrare una laboriosa benedizione onde disinfestarla. Da allora non si verificarono più episodi simili nella cella, ma nei corridoi del convento si continuarono a udire singulti e vocii incomprensibili – si diceva che fossero recitationes in greco – e che facevano accelerare il passo dei conventuali e li portavano a mormorare scongiuri e preci per accattivarsi la vicinanza di Dio e stornare la funesta presenza di un’anima dannata. Passano diversi anni, durante i quali non si perse memoria dei tragici eventi, ma di certo la paura manifestata agli inizi si andò affievolendo perché il tempo smussa, addolcisce e ottunde e il ricordo si fa meno vivo. Una sera, nel giorno in cui ricorreva l’anniversario della morte di Fra’ Girolamo, una bella e giovane popolana, che abitava vicino al convento, uditi gemiti e lamenti mentre stava per prender sonno, si levò dal letto per uscir fuori a capire da dove provenissero. La ragazza, incauta e nello stesso tempo ardimentosa, non conosceva bene la leggenda del frate agostiniano o, forse, non voleva crederci. Non sappiamo da quale forza misteriosa fosse spinta al punto da sfidare le tenebre. Il fatto è che, passa il tempo e non rientra a casa e la madre, terrorizzata dalla sua assenza, esce a cercarla. Grande fu il suo panico quando si accorse che, sulla strada maestra, il muro era rosso vivo! Abbassò lo sguardo e trovò il corpo della figlia disteso a terra in una pozza vermiglia! La veste era inzuppata dal sangue che le scorreva dalla bocca, la testa aveva subito percosse ed era orrendamente deformata. La ragazza avrà subito la più squallida delle violenze e, come se non bastasse, il suo carnefice volle trucidarla con indicibili torture. La madre disperata lanciò un acuto urlo di dolore e si sciolse in un lungo e penoso pianto che si irrorò per tutto il circondario. I popolani accorsero in frotte, agghiacciati da cotanto delitto sanguinario. La fine terribile della dolce fanciulla sconvolse la vita di tutti gli abitanti di Monteleone di Calabria che, il giorno dopo il funerale, avrebbero collocato l’epigrafe summenzionata proprio nel luogo in cui si era consumata la tragedia notturna, che era poi di fronte al convento degli Agostiniani Calceati. Essa sarebbe servita da avvertimento a quanti avrebbero udito pianti e urla strazianti in quel luogo, di cui non avrebbero dovuto mai curarsi per non seguire la stessa sorte dolorosa della fanciulla [...]

La leggenda, il racconto che affonda le radici in tradizioni antiche, non è un evento a caso: anticipando il frammento di un testo di prossima pubblicazione, uno dei miei "Sguardi sull'arte" (questa volta sarà il Libro Quinto), lo spiego così:
[...] "Flatus vocis" perso in una terra desolata.
Qual è dunque l'origine del mito?
L'essere umano e le sue domande: la coscienza infelice evocata nelle pagine di Hegel.
Ogni quesito, un abisso.
Lascito per chi verrà: la catena delle generazioni che fonderà il pensiero scientifico.
Ma l'uomo, in attesa, forma la traccia: l'istanza muta in racconto.
Giace.
Come soffio del tempo.
Fu scienza, con i mezzi possibili.
Oggi, noi che siamo chiamati testimoni, sorridiamo.
Stolti.
Inconsapevoli della profondità dell'atto narrativo: struggente consapevolezza di mondi silenziosi evocati in immagini destinate al futuro.
Il senso di essere stati diventa dono: fissa il punto per custodire la domanda dell'inizio.
La scienza nasce lì.
"Scienza dell'esperienza della coscienza": questo il titolo originario della più conosciuta opera di Hegel, la "Fenomenologia dello spirito".
Così, nella riflessione del filosofo di Stoccarda, tutto divenne chiaro.
Ma il concetto si perde: la potenza della parola corre verso il buio.
Al contrario, la figura, silenziosa quanto l'essenza del suo oggetto, illumina e riscopre.
L'arte è carne viva sulla quale rimane impressa la ferita dell'origine.
Già, "la ferita dell'origine": è questo il sentimento più intenso sul quale si fonda l'anima vibonese.
Una sorta di Giano Bifronte, l'antica figura divina che contemplava in sé la facoltà di poter vedere sia il passato che il futuro, un dio che "va" addentrandosi in un circolo virtuoso in grado di legare quel che sarà a quel che è stato.
Perchè meravigliarsi quest'apparente ossimoro, affatto tale per gli antichi? 
Del resto, la città vanta tradizioni storiche che affondano le radici fino a un tempo remotissimo, generalmente indicato in un primo nucleo risalente al neolitico, passando per l’età del bronzo e del ferro: un periodo che è connotato dalla prima denominazione di “Veipuna” fino al consistente insediamento di “Hipponion” fondato dalla potente Locri Epizefiri nel VII secolo avanti Cristo.
La storia si dipana.
E nello scenario prevalente del Mediterraneo, Hipponion sarà città di notevole rilievo geopolitico, contesa durante il lungo assetto che costituì l’espansione di Roma: nel 192 a.C. divenne cospicua colonia di diritto latino con il nome di “Valentia”.
La sua natura strategica venne riconosciuta durante il regno di Federico II di Svevia, dopo una lunga fase di decadenza che seguì la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, la blanda difesa bizantina, le disastrose incursioni saracene e la scarsa attenzione di Ruggero I, re normanno che le preferì Mileto.
Al periodo svevo risale la prima costruzione del Castello e la nuova denominazione di “Monteleone”.
Crebbe ancora sotto gli angioini e poi durante il periodo aragonese.
Rammentando sempre le proprie peculiarità, fu protagonista di una rivolta, in orgogliosa difesa delle proprie prerogative, nel passaggio da Feudo Caracciolo a Feudo Pignatelli tra la fine del XV e i primi del XVI secolo.
Rimase fiorente centro artigianale e commerciale nei secoli successivi fino ad assurgere al ruolo di Capitale della Calabria Ultra nei primi dell’ottocento durante l’effimera conquista francese.
Al ridimensionamento sotto il regno Borbone, seguì l’attiva partecipazione ai moti garibaldini e quindi all’unità d’Italia dopo la quale comparve la nuova denominazione di “Monteleone di Calabria”.
Una ripresa significativa si registrò tra la seconda metà del XIX secolo e la prima metà del ‘900, periodo animato da una brillante borghesia, fino agli ’20 e ’30 durante i quali l’azione politica e amministrativa di Luigi Razza ne consolidò il prestigio conferendole, tra l’altro, la denominazione attuale di Vibo Valentia. 
Avvenimento rilevante rimane, nella storia recente, la costituzione della “Provincia” della quale primo presidente, come ho già ricordato, è stato Enzo Romeo.
Ecco, dopo questo lungo discorso, riapparire il senso vero, fondato, delle parole di quell'amico, evocato all'inizio, sulle qualità estetiche del "centro storico" di Vibo.
E poi di quel salire sull'affacciata del suo "Castello" per lasciarsi conquistare dalla sua "Marina", dal suo porto, come una moderna Atene che guarda al Pireo.
Ogni città deve chinarsi al proprio destino.
Per Vibo valentia il destino è la sua rinascita.
Sovvengono le parole di un grande illuminista italiano: 
[...] No, cittadini, non si speri riposo: la civiltà è una milizia. - Carlo Cattaneo, Opere edite e inedite 
S'impone un nuovo impegno: questo è il suo tempo.
Partiremo in pochi, ma saremo in tanti.


Così, cosciente dell'inizio, come per trovare ispirazione prima degli accadimenti, ritorno a percorrerla, Vibo, fin dentro le sue salite, metafore che annunciano.
Sovvengono parole:
"La città rimane un "non luogo". 
Cangiante scenario della quotidianità, solo nella penombra delle luci si lascia cogliere in istanti di suggestione inesprimibile. 
Come fioche tracce di un sogno interrotto."
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