Lo spiraglio e la luce


Mi capita sempre più sovente di svegliarmi sul fare del mattino e di scegliere una comoda poltrona e la compagnia di un libro. È accaduto qualche giorno fa, di nuovo. E daccapo la poltrona e un libro. Questa volta un racconto d'arte di una pittrice insolita, Selina Spolverini. Osservo le opere che ha pubblicato in un volume assai curato dal titolo: "Stupenda follia". È anche il titolo di un suo dipinto, quello che campeggia in copertina. Non leggo nulla, osservo solo i dipinti. Qualcosa non torna, provoca disagio: il segno mostra tratti originari, ancestrali, mentre le placche di colore, estese e tormentate, introducono in una sorta di caos simmetrico, come di nebbia che per istanti si dirada in zone precise, sospinta da folate rivelatrici e fugaci. Decido di leggere le sue parole e finalmente comprendo quella sensazione di faticoso stentare. E si apre la soglia di un mondo.

Il mondo di Selina Spolverini appartiene solo a lei.
Lo ha subito per una colpa innocente: la natura s'è accanita con i suoi gesti tipici, quelli del cinismo sadico, impietoso, freddo, implacabile, disumano.
Una malattia, grave.
Gravi le conseguenze.
Grave il corollario di patologie intrecciate come radici avvinghiate.


Ma Selina ha lottato e lotta ancora con la forza della lucidità: l'effetto perverso della natura che rompe il legame tra il corpo e la mente, lasciando al pensiero tutta la sofferenza di sentirsi estraneo a quegli arti, al movimento, alla presenza di una struttura biologica divenuta prigione vivente, eppure fragile e infine insondabile come un macigno muto.
Scrisse Jacques Derrida nel suo "Monolingualism of the Other: or, The Prosthesis of Origin":
«I speak only one language, and it is not my own/Parlo una sola lingua, e non è un mio possesso.»
Oggi Selina dipinge e scrive.
E insegna la bellezza della luce sullo sfondo delle inenarrabili sofferenze patite.
Quella luce è fatta di una grammatica e di una sintassi rimasta nascosta, l'abisso dell'esserci al quale ogni accesso è precluso ma che mostra impercettibili segni, come parola che manca - Selina conosce bene, purtroppo, quest'esperienza drammatica - come espressione che attrae bruciando, dissolvendo e riapparendo senza soluzione di continuità.


Ho divorato le sue pagine attratto da questo racconto che nel suo essere ellittico forse risente di una riserva di pudore nel fare cenni rivolti al pensiero più profondo.
Ma si lascia comprendere, con delicatezza, con frasi come queste che compaiono all'improvviso nel suo testo:
«Persi i colori, il buio.
Sentivo che stavo cedendo alla tentazione.
Sì quella tentazione infame, quella che se cedi alla fine ti toglie tutto. [...] 
Mi fermai a guardare il mare prima d'andar via, catturai nei miei ricordi la sua forza imponente nell'imbattersi sempre a riva, senza arrendersi mai!
Ne rubai un'onda, per dar forza al mio sangue di scorrere ancora.»
Coraggio. 
Lo ammiro il coraggio di Selina.
Soprattutto, mi lascia felicemente stupito il modo in cui, con intelligenza, ha trasformato la crisi in atto di cambiamento.


Oggi questa donna dal grande carattere è un essere umano diverso dal passato: non s'è fermata a rimpiangerlo ma ha intrapreso un'avventura costituita dalla riscrittura del proprio esserci.
Visione haideggeriana?
L'invito a considerare la "gettatezza" di "esserci nel mondo" come condizione assoluta, ineludibile, insormontabile, sembra possibile poterlo cogliere in questo periglio, in questo rischio, in questo cimento impensabile.
Scriveva Jorge Luis Borges:
«Un uomo gradatamente si identifica con la forma del proprio destino. Un uomo è, a lungo andare, le proprie circostanze.»
Frase profondamente vera. 
Ma non risolve il tema: qui si corre ben oltre.
Il coraggio è lasciarsi tutto alle spalle e misurarsi con un presente continuo perchè continua scoperta.
Selina ha compreso i segni della relazione incessante nella quale siamo tutti immersi.
S'è presa la sua sofferenza e ne ha fatto un dono di vitale bellezza per chi sappia riconoscerla.
Come in un sacrificio religioso, ha afferrato il suo martirio e ne ha fatto kénosis, "svuotamento" interiore per fare spazio a un'accoglienza inattesa.
La vita non rinasce, rivive.


Non posso aggiungere altre considerazioni.
"Stupenda follia" non è solo una descrizione artistica.
Non è solo un racconto personale, intimo, riflessivo.
Non è solo un saggio di domande filosofiche.
Non è solo un viaggio.
Non è solo un esperimento di scrittura lirica.
Più di ogni cosa, è una distanza.


Il lettore intuisce fino a comprendere l'evento tragico, se lo sente addosso, ne immagina l'oscurità, la solitudine, la rabbia, lo sconforto, l'abbandono al male. 
L'osservatore vede l'angoscia e lo spasimo della tensione vitale, del sentimento contratto e della voglia di respirare la luce.

Eppure, l'atto stesso del racconto e dell'immagine dipinta, restituiscono il conforto vigliacco di non essere come lei, come Selina: nessuno di noi è davvero al suo posto perchè lei, per un gioco amaro della sorte è l'unica protagonista possibile del suo racconto.
Il transfert inteso non come fenomeno psicoanalitico ma come effetto del patto intrinseco nell'atto narrativo, la "fiction" come sentimento, come partecipazione, come "imago mundi" coinvolgente, qui è strappato, tranciato, abbandonato.
Il patto non regge più perchè il lettore/osservatore lo rifiuta, terrorizzato dalla possibilità di dover provare quel tormento.
Allora si svuota. 
Sente la pochezza del sè.
Avverte l'impossibilità di essere come lei.
Come Selina.
Selina, coraggiosa e unica.
Ecco la distanza. 
Ecco perchè non posso aggiungere alcun'altra considerazione.
Non me la sono meritata.
Forse, come invocazione al perdono, dedicandola a Selina Spolverini, lascio una traccia di parole:
«Carezza è il viaggio del vento».

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