I maestri di Mussolini


Non è comprensibile la figura di Benito Mussolini, sul piano storico, senza fare riferimento ad almeno quattro celebri uomini politici che lo precedettero e gli furono contemporanei: Francesco Crispi, Vittorio Emanuele Orlando, Giovanni Giolitti e Gabriele D'Annunzio. Modelli di istrionismo retorico e di pratica politica.

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Uno degli errori che si commettono nel tentativo di dare una collocazione storica alla figura del "duce" del fascismo, è considerarne l'unicità, l'originalità, la peculiarità nel panorama politico dell'Italia del primo dopoguerra.
A guardar bene, Mussolini, che di suo possedeva certamente un innato istrionismo e una forte personalità, non costruì la sua figura interamente da solo.


Intuitivo ma anche osservatore del suo tempo, sebbene occorra dubitare che il giovane Mussolini avesse avuto occasione, per l'età ancora imberbe, di ascoltare direttamente i discorsi di Crispi, non può esservi dubbio che fece in tempo ad avvertire l'eco influente dell'ex garibaldino, oratore ricordato per la sua verve travolgente.
Qualche esempio?
Eccolo:
"...Signori, ascoltatemi ancora, ed avrò conchiuso.
Se da questo luogo sorgesse improvviso, radiante di luce, severo e benevolo a un tempo, Giuseppe Garibaldi, e v’imponesse la concordia, che direste voi?
Osereste negarvi?
Or bene, se l’eroe non è materialmente qui, egli lo è in ispirito.
Voi non potete averlo obliato, perché aveste da lui la libertà della quale godete; a lui vi legano, per le grandi cose ch’egli fece, gratitudine e venerazione.
Lo spirito di Garibaldi aleggia in quest’aula, e per bocca mia egli vi chiede: unitevi, fate il fascio romano."

Oppure:
"...La memoria di coloro, i quali negli ultimi quarant’anni hanno dedicato la loro persona al risorgimento nazionale ed al trionfo della libertà, dev’essere un retaggio che incateni a noi le giovani generazioni, alle quali sarà dato di conservare la grande opera innalzata da coloro che muoiono.
Non ho altro da dire, né altro da desiderare."

E ancora:
"... il potere può […] essere consentito dall’universale, […], a un solo uomo; e tutto un paese, tutta una nazione, tutto un Parlamento può stringersi intorno ad esso; ma ad un solo intento ei deve usarne: a quello di adoperarsi perché nel più breve tempo e nel modo migliore si torni alle condizioni normali."

Infine:
"... Io sono un principio, io sono un sistema di governo, dal quale può dipendere l’avvenire della patria."

Ecco, appunto, gli esempi, chiari nella loro evidenza, di uno stile oratorio che faceva molta presa sull'uditorio, uno stile costruito attraverso l'uso di frasi nette, brevi, giunte a conclusione di periodi apparentemente involuti eppure scelti per esserne il necessario prologo, il contraltare che forniva di maggiore enfasi la troncatura finale.
Fu questa una caratteristica dei discorsi pubblici di Mussolini.


Ma c'è una figura che, senza alcun dubbio, contemporaneo a Mussolini stesso, ne fu il modello, anche invidiato e temuto proprio per la presa che questi aveva sull'opinione pubblica, un vero trascinatore, un coniatore di esclamazioni (famoso è il grido di guerra "Eja, Eja, Alalà"), motti e proclami cui il fascismo attinse a piene mani: Gabriele D'Annunzio.
Il primo discorso di D'Annunzio appena dopo l'impresa di Fiume, aveva queste parole:
"Italiani di Fiume, eccomi. Non vorrei pronunziare oggi altra parola. Ecco l’uomo che ha tutto abbandonato di sé per essere libero e nuovo al servigio della causa bella, della causa vostra: la più bella nel mondo, e l’eccelsa, per un combattente che in tanta bassezza e in tanta tristezza cerchi ancora una ragione di vivere e di credere, di donarsi e di morire. Eccomi. Sono venuto per donarmi intiero. E non domando se non di ottenere il diritto di cittadinanza nella città di vita. Nel mondo folle e vile Fiume è oggi il segno della libertà. Nel mondo folle e vile vi è una sola verità: e questa è Fiume; vi è un solo amore: e questo è Fiume! Fiume è come un faro luminoso che splende in mezzo a un mare di abiezione (...) Io soldato, io volontario, io mutilato di guerra, credo di interpretare la volontà di tutto il sano popolo d’Italia proclamando l’annessione di Fiume..."

L'impresa di Fiume, del 1919, romantica spedizione di "scalmanati" fu davvero il prologo della marcia su Roma e soprattutto fu l'espressione di una politica che aveva abbandonato i codici del passato per inaugurare un linguaggio nuovo, tonitruante, aulico, coinvolgente, e con esso un paradigma che attingeva a piene mani al comportamento irruento di immaginari guerrieri e uomini d'arme, anarchici e rivoluzionari, libertini e artisti, nazionalisti e ribelli.


Mussolini comprese la forza irresistibile di stile, parole, atteggiamenti (il saluto romano, i discorsi pronunciati dal balcone) emersi da quell'avventura tipicamente dannunziana, li rielaborò e se ne servì, facendone il puntello retorico di una politica efficace, lasciando ai margini gli eccessi poetici ma arricchendo il suo vocabolario di espressioni metaforiche.
Non di meno, fece scuola, per il Mussolini arringatore, il Vittorio Emanuele Orlando che inaugurò il dialogo con le folle radunate ad ascoltarlo: un metodo di creazione del consenso che si giovò, tuttavia, di un clima fuori dall'ordinario come fu quello degli anni che precedettero l'ingresso in guerra dell'Italia e poi il periodo delle trattative di pace a Parigi, dal quale emerse la frase famosa, dannunziana anche questa, della "vittoria mutilata" che tanta eco ebbe sul sentimento popolare.
Orlando, presidente del consiglio dopo la tragedia nazionale di Caporetto, seppe incarnare il desiderio di rivalsa negli anni più difficili della Grande Guerra, fino all'impresa di Vittorio Veneto che riscattò l'umiliante ritirata.
In particolare, si ricorda il suo discorso alla Camera del 22 dicembre 1917, un esempio di eloquenza vibrante di commozione e incitamento.


Tra i contrari alla partecipazione dell'Italia alla guerra, si distinse Giovanni Giolitti. 
Una figura, quella dello statista piemontese, ricca di sfaccettature. 
Certamente, non fu un uomo d'ordine e di repressioni violente alla "Crispi" - al netto di quel che pensava e scrisse Gaetano Salvemini che coniò per lui, in un celebre testo, l'appellativo di "ministro della mala vita" - dal quale era distante per visione generale e metodo politico. 
In egual misura, sarebbe difficile accostarlo a Benito Mussolini: personalità così diverse da apparire persino inconciliabili.
Eppure, la versatilità di Giolitti, il suo senso tattico, il cinismo e la risolutezza unite a una notevole sagacia nel destreggiarsi tra i flutti del gioco parlamentare, lo resero un modello di politico e uomo di Stato non indifferente alla "spugna" Mussolini. 
Quest'ultimo, da capo del governo, giostrò con identica abilità il "sistema" dei prefetti che Giolitti aveva rafforzato e reso più elastico ai potentati locali, specialmente nel Meridione (era uno dei cardini sui quali poggiava l'accusa di Salvemini).


E Mussolini si servì costantemente dei prefetti per consolidare il centralismo del governo e arginare anche i "ras" fascisti locali che tendevano ad assumere ruoli di potere in opposizione all'accentramento voluto proprio dallo stesso capo del fascismo.
Anche l'atteggiamento di Giolitti verso i cattolici, nel chiaro tentativo di riassorbirli nei meccanismi della politica governativa, venne ben compreso da Mussolini e perseguito come fine primario del suo consolidamento al potere.


Le oscillazioni tattiche di Giolitti, l'esigenza che egli sentiva come necessaria, di mantenere una posizione conciliante con i diversi schieramenti parlamentari e con i partiti che venivano emergendo dalla lotta di piazza e dal favore popolare, furono senza dubbio una scuola politica anche per il Benito Mussolini statista, sagace come Giolitti nell'intuire le qualità del momento e i possibili vantaggi.
Insomma, il Mussolini giunto nella stanza dei bottoni fu, per metodo e cinismo, molto più giolittiano di quanto sia dato immaginare.
Ma con una doverosa quanto evidente postilla: non fu giolittiano fino in fondo, altrimenti avrebbe evitato errori disastrosi.
A differenza sua o comunque molto meglio di lui, Giolitti capiva l'organizzazione dello Stato, ne intuiva le criticità, le fragilità, i limiti. Ed a questi seppe sempre adeguarsi con notevole disinvoltura.
Tant'è.
Mussolini non fu, dunque, il prodotto di se stesso.
E non tutto il fascismo fu un suo disegno.
L'ascesa al potere fu il frutto di circostanze complesse, di mutamenti radicali e condizioni pregresse: un crogiolo incandescente nel quale, tuttavia, seppe gettarsi con l'impeto e nello stesso tempo con il calcolo del giocatore d'azzardo.


Fu favorito da una condizione assai stentata della democrazia liberale di matrice ottocentesca, giunta nel XX secolo senza una chiara visione dei cambiamenti innescati dall'emergere delle masse e dei loro corpi intermedi, ancora acerbi tuttavia per costituire un argine solido alle derive estremiste e relative reazioni.
Il contesto era, senza dubbio, quello di una democrazia agli albori, immatura, scarsamente compresa.
Un modello che confuse aneliti individuali e movimenti di piazza per esercizio democratico.
Lo stesso sorgere dei partiti di massa e la loro scarsa dimestichezza e aderenza alle procedure d'integrazione nelle strutture istituzionali dello Stato, rese più debole quest'ultimo, ne ridusse il prestigio e l'autorevolezza fino a farne un antagonista pronto a sostenere, fin dentro le viscere delle sue varie articolazioni, derive ultranazionaliste e autoritarie che ne consolidassero i ruoli di potere.


Mussolini avvertì, rapidamente, l'imminente affermarsi di un'arrembante ondata conservatrice, intorno alla quale un nuovo equilibrio di potere avrebbe trovato ampio consenso.
Seppe governare un carro trascinato da cavalli imbizzarriti, liberando le briglie ma riuscendo a tirarle a sé al momento opportuno: insomma, ebbe la capacità di leggere con lucidità il tempo del suo protagonismo politico.
Soprattutto, era guidato da un esasperato anelito al potere e da una totale indifferenza verso un progetto ideale, da una visione dell'Italia concepita nel solco alle tendenze nazionaliste, conservatrici e identitarie borghesi, che più di altre emersero e trascinarono il consenso.
Il resto lo fece un uso sapiente e spregiudicato della "propaganda" amplificata dai mezzi di comunicazione di massa. 
Al netto di questo, in fondo, fu un politico "in scia".
Ma di questo saper intuire e seguire le tracce, fu oggettivamente e a lungo, un formidabile interprete.
Nella scia, anche, di alcuni sorprendenti maestri. 


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