I cibori di Arnolfo di Cambio a Roma
Artista eclettico, architetto e scultore, conosciuto per la sua genialità e perizia tecnica e stilistica, celebrato a Firenze e nella sua Toscana per le attribuzioni vasariane come Santa Croce e il Palazzo della Signoria, fu però molto attivo ed apprezzato nella “città eterna” dove lasciò opere modello, soprattutto due cibori, in un’epoca che preludeva la riscoperta dell’antico entro la sensibilità gotica
Stessa matrice,
alcune similitudini ma esiti diversi. Questo è forse l’incipit più appropriato
per discorrere di Arnolfo di Cambio (1240-1310), quasi coetaneo di Giovanni
Pisano, partecipe delle attività della bottega di Nicola Pisano, attivo
soprattutto a Roma.
Ma c’è un elemento
in più da segnalare: la particolarità dell’essere attivo in una città, Roma
appunto, che possiede un retroterra storico immenso e che ospita la figura più
eminente della cristianità, il Papa e la sua corte.
Anni difficili, anni
che preludono alla cosiddetta “cattivita” avignonese che Arnolfo fa in tempo a
vedere. È una Roma che si connota con le sue numerose basiliche e con le sue
storie innumerevoli e che intorno a questi centri e luoghi dello spirito,
organizza il proprio sistema laico e clericale di poteri e di potentati, di
aristocrazia e di popolo proto-borghese, nobilmente insensibile ai fermenti
internazionali che comunque la coinvolgono e ne segnano i destini, nel bene
come nel male.
Eppure, forse anche
per questo, l’arte prolifera, il clero partecipa dell’animarsi delle
committenze, forte di benefici signorili che hanno spiccato il volo verso i
sempre più lauti vantaggi economici scaturiti dalla rivoluzione commerciale,
mentre gli stessi Papi, da Innocenzo III fino a Bonifacio VIII dettano la loro
dottrina teocentrica incentrata sul primato della chiesa romana e sulla figura
preminente del Pontefice. È l’Urbe che non dimentica se stessa e che ha sempre
lo sguardo rivolto ai fasti del passato, al suo poter essere culla incontestata
della classicità, condizione questa di orgogliosa rivendicazione. Ed è una
città policentrica: non come gli altri comuni italiani che intorno alla cattedrale
ed al battistero sanciscono la loro identità, ma un centro urbanistico che di
identità e di elementi identitari ne può esibire di copiosi, rinnovati lungo i
secoli, una città per questo saccheggiata eppure inesauribile.
A Roma, in quella
Roma dunque, Arnolfo è particolarmente attivo ed impegnato.
Viene a conoscenza
dell’arte dei maestri Cosmati, per un tratto di vita è beneficiato della
committenza di Carlo I d’Angiò (di cui realizzò la statua intronata dal volto
fiero e distaccato di chi è aduso al potere) e, tra le altre, è chiamato a
creare il ciborio, l’altare maggiore della Basilica di S. Cecilia in Trastevere
nel 1293. Voglio soffermarmi su quest’opera.
Arnolfo è, come Giovanni Pisano, architetto. Quello che emerge, infatti, dall’opera in esame, è lo stile di una struttura che si staglia nello spazio circostante con maestà sicura tanto quanto lo è il monumento a Carlo I d’Angiò: il ciborio esprime una solida monumentalità, tanto che lo si potrebbe definire “romanico” nel suo prestarsi ad una volumetria estesa, coinvolgente, imponente.
È un Arnolfo che
sente la romanità, che si lascia affascinare da questa dimensione originale
avvertita ed introiettata più di quanto era avvenuto per il ciborio della
chiesa di San Paolo fuori le Mura, marcatamente gotico pur se nella tradizione
moderata peninsulare, che egli realizzò nel 1285, dunque solo pochi anni prima.
Lì, per la citata chiesa di San Paolo, era l’influenza dell’Ile de France, regione culla dell’architettura gotica, appresa probabilmente nell’ambito di ambienti transalpini legati alla corte del d’Angiò.
Per Santa Cecilia è
la classicità, la grandiosità degli impianti basilicali romani a dettare,
invece, nuova ispirazione, con archi trilobati ad ellissi ribassata
nell’archetto centrale. La torre, posta al sommo della copertura, appare
addolcita, proporzionata, armoniosamente circondata da timpani e pinnacoli che
non si protendono in verticale alla maniera gotica ma segnano lo spazio senza
infrangerlo, con misurata solennità, approssimandosi ad esso come giustificato
anche dalla rotazione a 45° degli stessi pinnacoli. Agli angoli, al di sopra
delle colonne in alabastro bardiglio e in corrispondenza del punto d’imposta
degli archi, compaiono i protagonisti del gruppo scultoreo: Santa Cecilia, San Valeriano,
San Tiburzio (quest’ultimo a cavallo sembra emergere dalla lastra in nobile,
compassata postura) e Sant’Urbano. Le lunette con fondale musivo (la conoscenza
dell’arte dei Cosmati si rintraccia in questi particolari che caratterizzano le
piccole architetture di Arnolfo come nel caso della tomba del Cardinale
Annibaldi a Roma o nel monumento sepolcrale del cardinale De Braye ad Orvieto)
ospitano invece gli evangelisti, i profeti e le Vittorie, tratti in
bassorilievi capaci tuttavia di suscitare la sensazione plastica di un
tuttotondo o la vividezza di un affresco di intenso pittoricismo.
Dal punto di vista tecnico, l’opera presenta alcune particolarità attinenti al sapiente incastro dei vari pezzi che la compongono: in questo Arnolfo è, come Nicola e poi Giovanni Pisano, un’artista eclettico, capace di ingegno e conoscenza architettonica accurate e profonde, applicate a quelle che rimangono pur sempre “arti meccaniche”.
Insomma, maestro
tra maestri.
In questo solco, i
due cibori, più di ogni altra opera, lo rappresentano al meglio di sé per
translazione: sono la concentrazione di qualità un tempo intrinseche negli
artisti: la conoscenza vasta della materia, delle forme, delle strutture e della
simbologia ornamentale che caratterizzavano la scultura. Questa, era vividezza
che emergeva dall’atto architettonico. Una qualità che gli emuli successivi
tradirono e detestarono, come Donatello per esempio, in nome di un’autonomia
dell’arte plastica rispetto all’essere funzione secondaria dell’edificio.
Eppure, quelle forme antropomorfe, sono solo apparentemente marginali: come nel
caso dei Pisano, anche nelle sculture e nei rilievi di Arnolfo di Cambio era
sorto un linguaggio nuovo, le tracce dell’emozione e dell’umano sentire che
mirabilmente s’integrano nel segno architettonico fino a stagliarsi come opera
unica, imprescindibile dalle parti che solo artificialmente la distinguono.
Tanto che c’è stato
chi ha accostato Arnolfo, in special modo l’Arnolfo che assorbì l’antico durante
la sua permanenza a Roma, seguendo una linea di continuità forse eccessiva, tra
gli originari ispiratori – in compagnia di Cimabue - di quello che diverrà il
Rinascimento fiorentino.
Forse, potrei essere d’accordo.
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