La strana relazione tra le avanguardie artistiche e lo 'spot' pubblicitario
Classico esempio di 'pensiero divergente'. Qualche anno fa, a Catanzaro, percorrendo le sale di una mostra molto interessante, “Lo Sguardo Espanso – cinema d’artista italiano – 1912/2012”. Esperienza illuminante e dagli esiti imprevedibili: l'intuizione del fattore di origine dello spot pubblicitario. Si tratta delle avanguardie storiche, movimenti artistici dei primi del Novecento, in apparenza dimenticate perché considerate eccessi creativi marginali
Come si fa a raccontare una mostra che possieda una precisa dimensione
semantica e stravolgerne il significato?
Non c'è altro modo: raccontarla e basta.
Così, provo a narrare un viaggio mentale, fatto
seguendo la scia di fenomeni artistici astratti dal flusso delle consuetudini
che, d'un tratto, rivelano la loro consistenza di atti di ricerca, di corse
libere in avanti, avanguardie, appunto.
Movimenti affascinanti, le avanguardie novecentesche
continuano a rimanere, secondo la vulgata, nel limbo delle stravaganze,
dell'espressione incomprensibile, in alcuni casi nemmeno riconosciuta come
arte.
Anche gli specialisti, gli storici e i critici d'arte, alla
domanda sul lascito delle avanguardie, a lungo hanno risposto negando
l'esistenza di un'eredità.
Questione controversa, lasciata
giacere sotto il peso di un giudizio così netto. Stesso discorso si ascolta a
proposito della "street art", anche questa lasciata fuori dalla porta
dell'espressione artistica.
L'ho sempre pensata diversamente.
Ecco, a lungo per me sono stati punti irrisolti: enigmi, per i quali non mi contentavo delle parole dei
manuali o dei testi specialistici, convergenti nel dichiarare l'esaurimento in
se stessi di quei filoni creativi.
No, è impossibile, mi dicevo: quelle esplosioni di vitalità
creativa sono state anche campi di una vastissima ricerca espressiva.
Nulla finisce senza lasciare una traccia. Come credere che
questo non valesse per il Futurismo o per il Dada, per le diverse correnti
espressioniste o per il Surrealismo?
Un primo ragionamento mi conduceva verso il cinema digitale,
la nuova frontiera paradigmatica della settima arte.
Già: le avanguardie si misurarono con il nuovo mezzo
artistico, non solo sul piano strettamente teorico ma anche attraverso opere
frutto di sperimentazioni ardite.
Tuttavia, la semplice valutazione teorica non era adatta
a inquadrare una questione che richiedeva “visione e impressione” diretta.
Un
film raccontato non ha nessun senso.
E poi, era necessario vedere la “tecnica” delle avanguardie.
In quel solco, decisi di avventurarmi nella mostra allestita tra le
suggestive sale del complesso monumentale del "San Giovanni".
Senza un preciso programma, con la vaga idea di trovare qualcosa che riguardasse il cinema digitale.
D'accordo, tiro il fiato. Da qui, inizia il racconto.
Subito m’imbatto in "Thaïs" (1917) di Anton Giulio
Bragaglia – scenografia di Enrico Prampolini, b/n, muto, 35’ su pellicola da 35
mm – che mi colpisce per la perfetta identità futurista nella scenografia, nei
disegni, nelle geometrie, in certe inquadrature che si soffermano sul
“movimento” e sulla “velocità”, negli arredi e negli abiti, così simili da
confondersi con le pareti, come se la scena dovesse prendere il sopravvento sul
dramma diventando la vera protagonista.
Nelle scene finali la constatazione è evidente: la stanza
segreta della casa di Thaïs è un microcosmo tecnologico surreale, una sorta di
“stanza olografica” che fa da sfondo all'apparire della coscienza che trafigge
la protagonista.
C’è molto dello stile del tempo, una chiara aderenza al
manifesto del cinema futurista del 1916.
Ma a parte il gusto “pittorico” delle scene, la tipica
ricerca sul movimento veloce e qualche cenno suggestivo all’uso degli specchi -
una tecnica usata per proporre l’immagine riflessa e non l’immagine ripresa
direttamente - non trovo elementi di sostanziale anticipazione della tecnica
digitale.
Vado avanti.
Eccomi all'opera successiva, “Il ventre della città” (1933)
di Francesco Di Cocco – b/n, 12’, pellicola da 35 mm – non sembra dissimile,
concettualmente e stilisticamente, da “La marche des machines” di Eugene Deslaw
(1927) musicato dal futurista Russolo: in entrambe le pellicole emerge il
protagonismo delle macchine e del lavoro esaltati dalla potenza visiva del
racconto e dalle musiche che aggiungono il loro commento impressionista al
ritmo.
Leggo sulla targhetta che l’opera conterrebbe elementi di
similitudine con il “Berlin” (1927) di Ruttmann: ci penso per un attimo, sì,
concordo.
Tuttavia, ancora una volta, al di là della innovatività del
soggetto, non trovo un aggancio stabile con la tecnica digitale.
Certo, il Futurismo è stata ribollente fucina per l’intero
movimento delle avanguardie ed uno straordinario punto di riferimento
“avanzato” per il cinema istituzionale analogico.
Persuaso di questo, non riesco però a cogliere nessun
riferimento di comparazione con il cinema digitale.
Però.
Sì, c'è un però.
Sono affascinato dalla forza che le scene riescono a
trasmettere con quel loro turbinoso succedersi.
C'è un dinamismo che non mi è del tutto nuovo: la questione
mi agita la mente, qualcosa di caotico, nebuloso, quasi ineffabile tanto sia
difficile da cogliere.
Questa sensazione mi accompagna lungo il percorso.
M'imbatto, in un salto temporale, con “Le Court Boillon”
(1964) di Silvio e Vittorio Loffredo – b/n, muto, 16’, pellicola da 16 mm – un
pittore di matrice post-espressionista che si cimenta con la macchina da presa
facendola diventare il pennello con cui dipingere sulla tela/pellicola.
Mi accorgo che manca il montaggio, o meglio che il montaggio
è stato realizzato direttamente in macchina.
E' interessante.
Mi viene in mente la declinazione di caratteri che si
potrebbe fare riguardo al cinema digitale nelle sue fasi sperimentali: non solo
il rifiuto del montaggio, ma anche la mancanza di sceneggiatura, l’uso di
supporti non professionali – il 16 mm – la stretta relazione con la pittura,
l’attenzione all’immagine, l’autonomia produttiva dell’autore.
Ecco, finalmente la mostra riesce a raccontarmi la sua
semantica, afferro un primo elemento di comparazione e comincio ad intravedere
lo stretto rapporto tra l’artista pittorico, che usa il cinematografo come
estensione della sua forma d’arte, e le possibilità di espansione che la
tecnica digitale consente.
Il concetto di cinema espanso, che da il titolo alla mostra,
si profila, trova i suoi caratteri e li mette in evidenza.
Con Luigi Veronesi m’imbatto in una rilevante
rappresentazione dell’astrattismo: illustratore, fotografo, grafico, cineasta,
pittore, aderente al MAC, Movimento Arte Concreta, è eclettismo allo stato puro
che si concentra sul fotogramma, sulla pellicola disegnata e dipinta a mano.
Diamine, ne resto colpito.
Eppure, più che dall’opera cinematografica (il cinema fatto
senza macchina da presa), la mia attenzione è attratta dalle opere pittoriche.
Vado avanti.
Ma poi ci ritorno e mi soffermo a guardare le sue n. 2, n.
4, n. 6, n. 9: in quei filmati percepisco l'intima musicalità di una sinfonia
di colori.
Questo artista sembra incarnare una sorta di
“multimedialità” tipicamente insita nel sistema digitale.
Si va oltre l’espansione della pittura e del cinema: è la
capacità combinatoria dell’artista ad anticipare la rivoluzione tecnica del
digitale.
Questo concetto è davvero espresso mirabilmente da Veronesi
in una sua considerazione:
«Il lavoro artistico è, secondo me, un’operazione che non si conclude con la produzione di un’opera, o meglio, l’opera prodotta non è fine a se stessa, ma deve essere uno stimolo per l’osservatore, il risultato di un complesso modo di operare che a partire dalla formulazione di un pensiero lo traduce in un’immagine suscettibile di lettura, cioè di comunicazione. Gli oggetti ritrovano nel fotogramma la loro espressione primordiale, noi possiamo vederli al di là della loro forma reale».
Ecco, finalmente ci siamo.
L’intervento diretto sull’immagine è il rivoluzionario giro
di boa.
Comincio a navigare a vele spiegate: me ne accorgo quando
giungo a contatto con Cioni Carpi.
Scopro che nel 1950 l’artista italiano è in Canada al
National Film Board dove il celebre Norman McLaren aveva fondato un famoso
dipartimento di animazione.
Si tratta della più evidente espressione di una tecnica che,
pasciutasi dell’esperienza avanguardistica sul senso dell’immagine, esprime il
vero, consolidato punto di riferimento per le nuove possibilità in capo alla
tecnica digitale.
“Point and Counterpoint” di Carpi è un’opera di animazione
dipinta direttamente sulla pellicola.
Il lavoro certosino dell’artista pittorico che interviene
direttamente sulla pellicola è oggi attuabile con le tecniche digitali di
generazione e di trattamento dell’immagine.
La composizione dell’immagine non è più limitata al suo
“catturarla” mediante la macchina da presa sulla pellicola, ma è realizzata
direttamente sul monitor e poi animata in un’infinita varietà di interventi
tecnici che, proprio le avanguardie, avevano desiderato attuare producendosi in
rudimentali invenzioni, puntando sull’immagine e non sul racconto, poiché
questa scelta conteneva in sé il messaggio più profondo del loro agire
artistico.
Il cinema digitale sarebbe stato il mezzo ineguagliabile del
loro viaggio creativo: il cinema analogico come una carrozza trainata da
cavalli; il cinema digitale come una moderna automobile.
Sento di dovermi quasi scusare con il futurismo: il lavorio
mentale della ricerca mi ha condotto sul versante dell’applicazione pratica
distraendomi dal valore che le diverse avanguardie realizzano mischiandosi tra
loro, attingendo l’una dall’altra.
Non solo l’astrattismo, ma anche il dada di "Ebak Bakia" (1926) di Man Ray o di "Entr’acte" (1924) di Renè Claire, con la loro
negazione dell’arte mi appaiono come un grido di protesta lanciato contro la
mera rappresentazione commerciale dell'industria cinematografica che su nulla
(o poco e prudentemente, per non esondare dai canoni della produzione) osa
sperimentare e che tralascia il senso dell’immagine come espressione dotata di
una sua specifica vitalità, di un suo essere al di là dello strumento capace di
coglierla o di “inventarla” dal nulla.
Si tratta di una delle eredità nascoste dell'arte
novecentesca.
Non ci metto molto a trovarne le prove: questa mostra
somiglia a un'anabasi.
Infatti, lungo la strada m'imbatto in “La verifica incerta”
(1964-65) di Gianfranco Baruchello, opera dadaista che mortifica l’originario
riproducendo spezzoni di lungometraggi destinati al macero.
Bellissimo. Una vera, profetica, affascinante dissacrazione.
Eccolo di nuovo il grido disperato di protesta che, nella
sua dissacrazione necessaria, prelude ad un approccio diverso e condurrà alla
VideoArte non prima di essere passata attraverso la corrente surrealista.
Ormai l'eccitazione della scoperta diventa sempre più
incontenibile.
Mi getto alla ricerca di ulteriori conferme che arrivano con
le opere di Munari e Piccardo capaci di dare vita ad esperimenti interessanti:
“Tempo nel tempo” (1964) che mi ricorda gli esperimenti di pre-cinema della
cronofotografia di Muybridge e di Maray; “Scacco matto” (1965) con le sue variazioni
cromatico-materiche; “I colori della luce” (1963), uno spettacolo cinetico che
si giova delle musiche di Luciano Berio.
Ma c’è qualcosa che mi colpisce, che mi sorprende: un
particolare marginale che muta decisamente la mia prospettiva.
Leggo che i due artisti sono stati autori di film
commissionati da aziende come la UPIM e la OLIVETTI.
Appare, all’improvviso, un’inedita commistione tra arte e
pubblicità.
Oddio, ma come ho fatto a non pensarci?
Lancio un grido entusiasta...Qualcuno mi guarda come si fa con un matto.
Eh vabbè.
Giusto il tempo di riprendermi, e di ridarmi un contegno, ed
ecco “Alchimie meccaniche” (1951-1986) una sorta di video-musicale, sempre di
Munari.
Ormai ci sono dentro e mi è facile cogliere, a ritroso, il
significato delle sensazioni di fronte alle immagini futuriste dell'inizio,
quelle che tanto somigliano a un “documentario”.
Mi sovviene l'opera più celebre di Vertov, “L’uomo con la
macchina da presa” (1929), un concentrato di tecniche, per me una nuova,
vertiginosa forma espressiva.
Sento che mi sto avvicinando a qualcosa di significativo. Il
destino mi fa comparire davanti a una gigantografia con una frase profetica di
Warhol:
«Trovo più facile girare film che dipingere».
Che dire?
Folgorato sulla via di Damasco.
E infatti, con Nato Frascà, mi accorgo che molti artisti
d’avanguardia hanno lavorato nella produzione televisiva di tipo
documentaristico: in questo non possono che essere debitori della
sperimentazione futurista.
Il dado è tratto.
E con le citazioni parallele mi fermo qui.
Ormai non mi può sorprendere più nulla.
Si fa per dire.
Ad un tratto, compare sulla scena un media fin lì
dimenticato: la televisione.
Vado avanti.
Con Giosetta Fioroni nel suo “La solitudine femminile”
(1966-67) colgo il senso profondo del surrealismo: l’inconscio si manifesta in
ritratti femminili visti con l’occhio della macchina da presa. Sembrano dei
dipinti e mi pare di vedere in questi tutto il senso della frase di Warhol, la
trasformazione del pittore tradizionale in “pittore cinematografico”.
Attraverso rapidamente “Schermi” (1968) di Franco Angeli –
monitor televisivi filmati in esposizione multipla – e corro veloce tra Luca
Maria Patelli con il suo “Vado, vado” (1969) e il “Rotor” di Umberto Bignardi,
il cilindro in movimento creato nel 1967 come richiamo al pre-cinema, tra
“Salomè” (1972) di Carmelo Bene – notevole per la sensibilità pittorica e
l’aggressiva potenza del montaggio con le sue 6000 inquadrature – e Mario
Schifani, che teneva accesi per tutto il giorno monitor televisivi utili a
cogliere frammenti da rielaborare per le sue tele.
Passo dai disegni animati di Gianini e Luzzati che ammiro
con istinto profetico: il cartone animato nel XX secolo e la computer grafica
nel XXI secolo sono l’espressione autentica del compimento delle utopie delle
avanguardie storiche, superamento della pittura e del cinema attraverso il
controllo assoluto dell’immagine, prima “a mano” e ora mediante il pc.
Il puzzle si va dunque componendo.
Mi aspetto rivelazioni finali.
Mai divertito così tanto in una mostra.
E, come per una magia ampiamente attesa, arrivo ai caroselli
animati di Pino Pascali, non a caso scenografo televisivo e autore
pubblicitario.
I caroselli sono essenzialmente musica e movimento
sincronizzati come nella danza, costruiti su immagini interamente ideate e
create dall’artista.
Siamo al trionfo della tecnica dell’animazione che trova
applicazione in un campo di vasta diffusione.
La sperimentazione creativa sull’immagine diventa prodotto
commerciale.
I caroselli sono i veri antesignani dello spot
pubblicitario: questo è, ai miei occhi, la forma più incisiva di cinema
analogico istituzionale capace di cogliere la poetica avanguardista e le sue
tecniche, compiendo un balzo dal Futurismo e raccogliendo tutta intera la
lezione espressionista, Dada e Surrealista.
Basta guardarle le opere di Pascali per vederne tutti i
segni anticipatori: la grafica, la colonna sonora, lo scenario, il movimento,
la compattezza espressiva, l’essenzialità, il racconto che diventa strumento e
l’immagine che diviene racconto.
La conclusione è scontata.
Che cos'è lo spot pubblicitario?
Espressività pura per immagini, compimento di un’estetica
totale, dinamismo, vivacità cromatica, dissolvenze, voli, corse, effetti
stroboscopici, scomposizioni cubiste, suggestioni futuriste.
Se i caroselli ne sono la matrice, qual è la logica
conseguenza?
Questa:
"lo spot contemporaneo rappresenta il punto di congiunzione tra le avanguardie e la tecnica televisiva, sia nella modalità analogica che digitale, in una forma espressiva di potente funzionalità creativa e artistica."
I modelli delle avanguardie rimasti senza lasciti?
Macché.
E' emerso così chiaramente l’ambito di applicazione, capace
addirittura di costituire “creazione” del gusto del pubblico oltre che concreta
interpretazione.
Un esempio: "La linea" di Osvaldo Cavandoli,
celeberrimo retaggio dell'infanzia, pura genialità.
Sì, è vero, potrebbe suonare strano che l’utopia
avanguardista abbia trovato sbocco espressivo nella televisione.
Ma mica tanto.
Basta rileggere i versi dimenticati de "La
Rossina" di Apollinaire:
"...Siate indulgenti quando ci paragonateA quelli che furono la perfezione dell’ordineNoi che dappertutto cerchiamo l’avventuraNoi non siamo i vostri nemiciNoi vogliamo donarvi vasti e strani dominiDove il mistero in fiore s’offre a chi vorrà coglierloLà ci saranno fuochi nuovi e colori mai vistiMille imponderabili fantasmiCui bisogna dare realtàVogliamo esplorare la bontà terra sterminata dove tutto taceCi sarà anche il tempo che puoi scacciare o far tornarePietà per noi che combattiamo sempre alle frontiereDell'illimitato e dell'avvenirePietà per i nostri errori pietà per i nostri peccati...".
Mi viene da dire, grazie per i vostri peccati.
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