Le origini orientali della pittura occidentale


Dileggiata e quasi vilipesa, l’arte cosiddetta “bizantina” è invece l’espressione creativa che ha prima riletto e poi tramandato all’Occidente il gusto e l’esigenza della figurazione astratta, poi trasmutata in atto narrativo quando il “sacro” si fa definitivamente “carne” in età francescana

C’è una frase di Cennino Cennini, tratta dal suo “Libro dell’arte” redatto ai primi del ‘400, che tutti gli storici dell’arte conoscono e citano frequentemente: «Il quale Giotto rimutò l’arte del dipignere di greco in latino, e ridusse al moderno.».
Non è, anche se potrebbe esserlo, l’atto di nascita ufficiale, tra le pagine di un testo, della pittura occidentale. Prima di lui ci furono Dante, Giovanni Villani, poi Boccaccio e Petrarca, ancora Filippo Villani e infine Giorgio Vasari.
Però è tra le più famose, anche per la sintesi assai efficace.
Tuttavia, l’espressione non è letta nel suo più autentico significato: rimutare vuol dire mutare di nuovo, dunque tornare ad una figurazione che antecedeva la pittura greca (qui intesa come “modo” di Costantinopoli) e che era evidentemente il dipinto classico del quale si era potuta vedere qualcosa almeno nella Roma del Duecento e forse del Trecento. Quindi, continua Cennini, “ridusse”, cioè portò a una condizione diversa - anche qui emerge il “mutare”- ovvero condurre addietro (re-ducere) nel senso di riportare l’arte ad una condizione espressiva originaria che in quanto tale divenne moderna perché correlata al gusto di una società essa stessa mutata.
Fin qui è come dire: la pittura recupera nella modernità i connotati dell’espressione figurativa antica, il naturalismo perduto nella lunga fase “astrattista” dei cosiddetti bizantini.
Anche Vasari ("Le vite") nel ‘500, sempre a proposito di Giotto, usa parole simili, ma più radicali: «… divenne così buono imitatore della natura che sbandì af­fatto quella goffa maniera greca, e risuscitò la moderna e buona arte della pittura, introducendo il ritrarre bene di na­turale le persone vive; il che più di duegento anni non s’era usato». Quella di Vasari è una rappresentazione drastica che traccia un solco rispetto al passato, dileggiandolo: una missione che troverà continuità nei secoli a venire fino alle più critiche espressioni vergate da Roberto Longhi, che è bene richiamare a proposito dei tre stili che segnerebbero di sé la pittura occidentale del ritorno al naturalismo: «… La plasticità dei musaici romani tornerà in Giotto e in Masaccio espressa con maggior chiarezza; il colorismo nei Veneziani sempre bizantini anche nel Cinquecento; la linea (di matrice greca, ndr) nei Senesi e irrobustita dai Fiorentini. ».
Ho voluto ricordare le parole di Longhi non solo per l’autorevolezza dello studioso insigne ma anche per la chiara indicazione di uno schema stilistico nel quale l’Oriente somma per almeno due terzi nella qualità di “socio” fondatore della pittura europea nella seconda metà del Duecento.
Ma non basta.
Sempre Cennino Cennini, nello stesso testo citato, poco prima della frase più celebre, aveva lasciato un’espressione raramente ricordata: « e questa è un’arte che si chiama dipignere, che conviene avere fantasia, con operazione di mano, di trovare cose non vedute (cacciandosi sotto ombra di naturali), e fermarle con la mano, dando a dimostrare quello che non è, sia. E con ragione merita metterla a sedere in secondo grado alla scienza, e coronarla di poesia.».
Perché non la si ricorda mai? 
La mia risposta è questa: perché si teme di tradire l’idea dell’arte occidentale secondo Vasari e gli altri antesignani ed epigoni.
La questione centrale della frase di Cennino è la seguente: «… di trovare cose non vedute (cacciandosi sotto ombra di naturali), e fermarle con la mano, dando a dimostrare quello che non è, sia.». Il naturalismo delle immagini è una finzione che ha il suo atto d’origine nella mente (fantasia) e che con perizia (con la mano) figurano una scena che non è mai esistita nel tempo e nello spazio. 
La pittura è sempre un’espressione mentale che fissa in immagini un concetto. 
Ecco perché merita di accompagnarsi alla poesia.
Il naturalismo è uno strumento, non un fine.
La pittura è sempre un atto d’astrazione: lo stile può mutare ma la sostanza, il richiamo a “quello che non è”, non può essere eluso. 
Per quanto ci si nasconda dietro l’ombra di figurazioni che imitano la realtà.


I mosaicisti costantinopolitani – bizantino è un termine che ha una connotazione dispregiativa, anche perché i bizantini come tali non sono mai esistiti – che fecero rilucere San Vitale e Sant’Apollinare (Nuovo e in Classe) a Ravenna, continuando a lasciare il segno nel resto della penisola italica per secoli, interpretavano l’arte secondo canoni che avevano reso superfluo l’inganno della percezione naturalistica delle figure, delle architetture e dei paesaggi, portando al parossismo l’elemento sacrale del richiamo all’invisibile. Fu questa una delle ragioni della reazione iconoclasta tra il VIII e il IX secolo: l’icona è vissuta alla stregua di simbolo materiale della divinità cristiana, investita di un potere reale perché mediato dalla relazione diretta con l’immateriale. 
Questo il significato che giustifica le icone “acheropite”, figure impresse direttamente dalla divinità e non prodotte dalla mente dell’artista.
D’altronde, l’arte che ritrae il sacro non può interrompere quella relazione: chi prega guarda l’immagine e si raccoglie, direi, si astrae in essa e grazie ad essa. 
Lo sguardo fisso di un’icona incontra la preghiera del credente. 
Non si prega di fronte ad un santo rappresentato in un atto narrativo, una figura sacra che elude la fissità intensa di uno stato d’animo. In questa prospettiva, la “maniera greca” (che riguarda l’enorme bacino sud-orientale del mediterraneo) riflette con coerenza filologica l’espressione del sacro in pittura. 
Ed è su questa coerenza che la figurazione rispecchia schemi iconografici fedeli al modello originario, la copia rispecchia il prototipo. 


Mentre l’evoluzione dell’arte pittorica occidentale vuole infondere il ricordo delle vicende sacre ad ornamento del luogo di culto.
Le dispute teologiche della cristianità, dall’ambivalente immagine diarchica o “consolare” dei santi Pietro e Paolo, fino alla concezione del cristo creato e non consustanziale a Dio, il teorema millenaristico e apocalittico che impone la presenza della Vergine, fino al concilio di Nicea che sancì la caduta in eresia dell’arianesimo e la relazione trinitaria che lega il Padre al Figlio, senza per questo tralasciare i rapporti politici che legheranno per sempre la chiesa al potere e che furono l’origine delle lotte tra papato e impero, tutti questi non sono fatti estranei all’evoluzione dell’espressione artistica in occidente: la teologia e le sue riflessioni segnano il passo della figurazione pittorica, la alimentano e infine la mutano, privilegiando la narrazione come elemento didascalico imprescindibile. Fu proprio papa Gregorio Magno a scrivere: «La pittura adempie per gli ignoranti la stessa funzione che ha la scrittura per chi sa leggere. Nella pittura gli ignoranti vedono gli esempi da seguire; in essa leggono coloro che non sanno leggere e le immagini sono state poste nelle chiese non per essere adorate, ma solo ed esclusivamente per istruire le menti degli indotti.».
Per me, questa è una reazione iconoclasta: la critica verso l’adorazione delle immagini traspare chiaramente anche dalle parole del pontefice di Roma. È una valutazione che occorre fare altrimenti tutto diventa incomprensibile. Eppure, anche questa visione del ruolo dell’arte è tralasciata o peggio, equivocata.


L’arte come anelito alla rappresentazione dell’invisibile deve essere posta ai margini del sacro: in Oriente con la disputa iconoclasta, mentre in Occidente con la deviazione verso la componente narrativa. Dunque, la linea è comune ma il metodo è assai diverso. Tutto congiura nel mutare la rappresentazione, perseguendola e annullandola oppure trasferendola su un altro piano che con il sacro ha una relazione apparentemente stretta ma realmente limitata.
Tutto si complica anche perché l’esigenza narrativa non è affatto estranea al modo di figurare orientale, imbevuto anch’esso di tradizione greco-romana.
Certo, il fondo oro delle immagini che effigiano i santi e le madonne in maestà non spariranno ed anzi continueranno a svolgere la loro funzione simbolica, in un miscelarsi contraddittorio, ambiguo: come ho chiarito, l’arte sacra non può essere solo narrazione, il fedele ha necessità di rivolgere la preghiera ad un’immagine simbolica nella quale compenetrarsi. 
Del resto, ancora ai nostri giorni, alcune statue ed alcune opere pittoriche rimangono espressioni iconiche alla maniera “bizantina” nel sentimento popolare e il simbolismo cristiano, articolato e molto complesso, continua a mantenere un solido retroterra nelle credenze più diffuse. 
Ma è proprio allora, in quei secoli lontanissimi, che sorse la dicotomia tra due modi d’intendere l’arte e di riallacciare quella occidentale a tema del racconto, più allegorico che simbolico, in ambiente sacro. Senza per questo credere che l’elemento narrativa non si ammanti di richiami teologici spesso in antitesi o contraddittori, in linea con le tendenze della dottrina, fino all’affermazione “cristologica” degli ordini mendicanti e in particolare dei francescani.
La dottrina di Francesco d’Assisi è davvero profondissima su questo piano: la carnalità del Cristo è la misura autentica della forza che scaturisce dalla fede. 
Il sacrificio “vero” è l’atto autentico con il quale Cristo si lascia “divorare” dagli uomini per compiere l’atto di salvezza dal peccato originale consumato dalla coppia scacciata dall’Eden. 
In questo solco, la fede è vita piena ed è già salvezza per il credente: la grazia è discesa sulla terra ed è un annuncio per l’umanità tutta. E non può che essere grazia itinerante, grazia che racconta e che afferma la potestà della parola divenuta verità.
Così, si smette di figurare il cristo divino trionfante sulla croce e s’inaugura la stagione di un cristo “patiens”, che soffre, da uomo, il dolore del martirio e della croce, agnello sacrificale come Francesco volle essere ad imitazione di Gesù. 
Maria Vergine diviene realmente consapevole dell’annuncio e il cristo bambino oscillerà tra l’immagine di un volto già adulto e quella di un neonato del tutto simile ad ogni altro. Tutta la pittura del Duecento, per essere davvero compresa, va osservata, al di là degli aspetti tecnici e stilistici, con quest’ottica di fondo che venne maturando nel corso dei secoli.


Ed è per questa via che le classi proto-borghesi si affacceranno all’arte occupando un ruolo sempre più significativo nella figurazione sacra, cogliendo la necessità di attingere ad uno schema iconografico che identifichi la loro autorevolezza – si pensi ai ritratti quattocenteschi di Federico da Montefeltro e Sigismondo Pandolfo Malatesta creati da Piero della Francesca ma anche alle immagini sacri dello stesso Piero - fino a sganciarsi da essa, fino a condurla sul versante della secolarizzazione e dell’autonomia.
Naturalmente, non si è trattato di un processo semplice. E nemmeno rapido.
Ma con queste premesse, inevitabile.
Talmente inevitabile che la controprova si attesta nel XX secolo, quando le avanguardie artistiche ricondurranno la figurazione sul versante inesplorato dell’astrattismo d’origine, quella ricerca dell’invisibile che compì un lungo viaggio dai fondi oro e dalle figure iconiche figlie dell’arte plebea della Roma tardo-imperiale e della riflessione estetica di Costantinopoli, almeno fino alla Pop Art di Andy Warhol.



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