L'impero e la Chiesa


Nella storia del cristianesimo il connubio con il potere imperiale, i suoi riti, il modello gerarchico ed organizzativo, fino alla rappresentazione sacra nei luoghi deputati al culto, è parte costitutiva dell’evoluzione della Chiesa, un’influenza reciproca, che in occidente prese altre connotazioni conflittuali, avviata al tempo di Costantino e proseguita dai suoi successori in terra di Costantinopoli e nelle sue propaggini italiche. Come dimostrano le splendide e inequivocabili testimonianze di Ravenna

Chiesa di San Vitale, a Ravenna, capitale della Prefettura d’Italia istituita dall’imperatore Giustiniano alla metà circa del VI secolo, dopo la rovinosa guerra greco-gotica, combattuta dall’esercito imperiale d’oriente contro gli ostrogoti occupanti la penisola e durata per oltre un ventennio. 
Una Ravenna già di tradizione imperiale, centro fortificato per via naturale da aree lacustri e paludose che ne rendevano impervio l’eventuale assedio e collegato, mediante il porto di Classe, direttamente a Costantinopoli lungo la rotta dell’Adriatico.
Non è per caso, quindi, che la Chiesa di San Vitale ospiti due “apparizioni”, simboli rimasti inalterati della tecnica musiva antica, di per sé dotata di più robusta tempra rispetto alla tecnica pittorica. 
Sono apparizioni della corte imperiale: la prima immagine è quella che raffigura Giustiniano ed i suoi più stretti dignitari. 
L’imperatore d’oriente, al centro, caratterizzato dalla corona, dal manto color porpora e dal nimbo, l’aureola di santità che lo accomuna alle immagini sacre. In mano tiene una patena d’oro, simbolo liturgico che con esplicito riferimento salda l’immagine del potere con il carattere sacro che ne giustifica il rilievo.
Questo è un elemento nodale della rappresentazione, un fattore che unisce l’espressione artistica dell’oriente imperiale del VI secolo con i valori tradizionali del periodo tardo-antico: l’imperatore è la massima espressione di un potere che è tale poiché è espressione sacrale di un’investitura divina.
L’imperatore concentra così su di sé il ruolo di protettore della cristianità, in continuità con una tradizione che è molto più antica e che risale nel tempo alla figura del Pontifex Maximus sagacemente rinnovata e consolidata fin dal primo impero introdotto da Ottaviano Augusto, tradizione poi rinsaldatasi con Costantino nel IV secolo intorno al culto cristiano ormai centrale nell’ultima fase dell’impero d’occidente. 
La dimensione sacrale spiega la presenza della corte imperiale nella decorazione dell’abside basilicale di San Vitale e traccia il significato della gerarchia che nell’immagine è rappresentata anche dal vescovo Massimiano, posto subito a sinistra dell’imperatore nel ruolo di funzionario imperiale quale effettivamente è nella concezione politico-religiosa del tempo: non esiste un potere laico distinto da un potere religioso, ma una rigorosa gerarchia che contempla entrambi i caratteri in una simbiosi coerente con i principi istitutivi e regolatori del potere.
Intorno all’imperatore i suoi dignitari, i militari ed i capi religiosi, tutti gerarchicamente collocati, tutti disposti in posizione frontale davanti allo spettatore, come se lo attendessero, come a mostrarsi nella loro luce sacrale che supera persino il concetto di simbolo.
Se la “religio” è unione ed il sacro è separazione, Giustiniano e la sua corte incarnano entrambe le dimensioni: la separazione, quindi la sacralità, è insita nella perentoria affermazione di superiorità della funzione, qui stabilita dai simboli che accompagnano le figure.
L’unità del mondo cristiano è invece rappresentata dalla rivelazione della stessa sacralità del potere che è incarnata in figure umanissime. 
Si tratta dell’umanità degli sguardi vivi, determinati, carismatici, quasi seducenti nella loro fissità superiore: “eccoci, noi siamo il potere, siamo i protettori della fede” sembrano dire senza proferire parola. Un potere talmente chiaro da non aver bisogno d’altro che di quello sguardo così intenso rivolto verso il pubblico da figure che lo richiamano alla palesata potestà dell’investitura divina.
Una sacra potenza, dunque, che si trasla nell’immagine posta specularmente a quella fin qui citata di Giustiniano e della sua corte: l’immagine della basilissa, l’imperatrice Teodora, ovviamente porporata anch’essa e caratterizzata da un calice d’oro che tiene in mano.


Mentre nella raffigurazione di Giustiniano lo sfondo dorato è astratto, immateriale di fronte alla materialità sacrale dell’imperatore e del suo seguito, qui lo sfondo, sempre dorato, è invece caratterizzato dallo sfarzo di drappeggi e di accennate architetture retrostanti che rivelano la solennità della sede imperiale.
La materialità del contesto che ritrae Teodora, il maggiordomo che la introduce, le dame che le sono accanto e quelle che si approssimano alla scena da destra, risulta profondamente asimmetrico rispetto alla raffigurazione dell’imperatore: si tratta di uno stacco netto che, pur nell’isolamento delle due figure imperiali accomunate dal nimbo e dalle vesti e dalla centralità gerarchica, traccia una differenza di ruolo e quindi un’ulteriore gerarchia. 
La fontana battesimale posta nella raffigurazione della corte della basilissa diviene, allora, un simbolo di ricercata purezza che può essere officiata dalla figura dell’imperatrice in una dimensione mondana, una dimensione quasi narrativa grazie ai gesti che compongono la scena.
Una scena che è concepita sapientemente proprio a partire dalla collocazione della fontana battesimale: questa è stata posta avendo come sfondo il nero buio dell’ambiente rivelato dal dignitario che scosta il tendaggio. La stessa fonte diventa il riferimento per la profondità della rappresentazione che vede le figure arretrate rispetto al piano di calpestio.
Dall’altra parte, l’astrazione è riempita da un tutto pieno delle figure regali che occupano lo spazio quasi per intero catalizzando lo spettatore con i loro sguardi, occhi che si accompagnano a quelli dell’imperatore nella manifestazione della possanza divina e della divina protezione sull’umanità. Che non ha bisogno di essere contestualizzata: essa è immanente al mondo.
C’è dunque una simbologia palese ed una simbologia latente ma più intensa che sembra porre in ideale colloquio le due raffigurazioni: è sempre potenza del simbolo ma lo stile del messaggio è diverso. La postura dei corpi è ieratica, si uniforma al significato simbolico, ma viene così perdendo il tentativo iconico che è invece pienamente raggiunto nei mosaici coevi dei santi martiri e delle sante vergini di Sant’Apollinare Nuovo, sempre a Ravenna.
Questa è, probabilmente, la forza intrinseca dei mosaici di San Vitale in esame: un’epifania che dischiude, squaderna un solido impianto ideologico di implacabile fondatezza e di non comune fascino. Direi si possa parlare dell’estrema espressione di un processo di elevazione divina entro la quale l’immagine del potere ha attraversato la trasformazione del ruolo imperiale fino a coincidere con le più accentuate rappresentazioni in oriente della funzione regale.
È elemento assai significativo in un’epoca di ricostruzione del concetto di potere e di incessante ricerca del suo fondamento in occidente. 
Non sarà sufficiente: l’effimera riconquista dell’impero d’oriente della penisola italica e di parte dei territori appartenenti all’epopea dell’ormai sepolto dominio romano d’occidente, appare incoerente con la maestà che racchiude l’empireo raffigurato in San Vitale, dove le rappresentazioni delle figure apicali assumono rilievo speculare persino con la maestà della corte celeste, raffigurata nello spazio centrale dell’abside, oppure nei fortissimi richiami simbolici dei due angeli che sorreggono il tondo con i segni del Cristo rinvenibili sul vertice dell’arco absidale, o ancora nel raffronto con le scene bibliche che decorano il presbiterio della stessa basilica a pianta centrale ottagonale di matrice orientale.
Sfavillante di una luce che penetra anche dall’alta cupola e si accentua grazie ai riflessi dei mosaici, la basilica si presenta all’interno con un nucleo centrale intorno al quale si snoda il deambulatorio mentre il nartece, disassato rispetto all’asse longitudinale dell’abside, invita ad una contemplazione stereometrica dei volumi cadenzati e dello scenario trasognante.
La commistione tra il sacro ed il profano che può apparire inadatta all’evoluzione del mondo cristiano occidentale, rimane, in realtà, l’espressione di una rivelazione più comune di quanto sembri nell’ottica medievale che si comincia a manifestare: è forse il tratto tipico di una lunga costruzione storica che contiene in sé una ribollente vivacità culturale e che si esprime verso molte direzioni e da molteplici punti di partenza, incrociando spirito e materia, astrattezza e realismo, silenziosa presenza e strutturato linguaggio. 
Una traccia di medioevo che chiede di essere rivelata.

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