Nove maggio 1978. La 'geometrica potenza' del male
C'è un breve arco di tempo che ha segnato il mio passaggio dalla fanciullezza alla prima consapevolezza. Oltre quarant'anni fa si consumava la tragedia di Aldo Moro, in un'Italia già decadente. La memoria mi ha lasciato il senso di un fanciullesco smarrimento di fronte alla Tv: le immagini della concitazione durante il giorno del rapimento, accompagnate dalle voci ansimanti e gravi della cronaca raccontata da Paolo Frajese e Bruno Vespa. Intuivo il dramma di un episodio senza precedenti. Poi, lo sgomento, in quel nove di maggio: troppo giovane per capire, venni sopraffatto da mille interrogativi, al tempo rimasti senza risposta. Frattanto accadeva un'altra sciagurata vicenda, lontano dai riflettori, in Sicilia: l'assassinio di Peppino Impastato, uomo carico di dignità, coraggioso, onesto. Quasi che l'Italia fosse racchiusa in quel drammatico frammento di tempo, tra due vicende paradigmatiche del male e della violenza, in un Paese dalle troppe e stridenti contraddizioni.
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Nel 1978 ero poco più che un ragazzino di nove anni.
Eppure ricordo bene: vedo ancora me stesso seduto davanti alla Tv in bianco e nero, a seguire la cronaca dei telegiornali Rai, gli unici allora, e poi i dibattiti, le interviste.
Una sorta di "non stop" ante litteram, un'infinita "maratona Mentana" fatta in casa.
Il rapimento e l'assassinio di Aldo Moro costituivano, per me la "forma" di una "materia" storica.
Epoché, nel senso etimologico: la "forma" che appare come sospensione del processo lineare del tempo, che si astrae ponendosi a modello d'interpretazione.
Fu la mia prima volta.
Del povero Peppino Impastato non seppi nulla, invece.
Episodio archiviato tra la cronaca criminale e quella giudiziaria.
Vittima anche dell'agenda setting.
Anni dopo, collegai le due vicende e ne compresi il significato.
Che era inscritto in quella che si chiamò "geometrica potenza".
Espressione che contiene un nocciolo duro di implacabilità insormontabile.
Il delitto Moro portava a compimento la "geometrica potenza" proclamata da Franco Piperno.
Ma che dietro quella frase ci fosse il nulla, provò a farlo comprendere Alberto Ronchey in un famoso editoriale sul Corriere della Sera del 18 marzo 1978, denunciando l'assurda tesi del complotto internazionale:
«...per una tendenza cospicua dell’opinione, la stessa efficienza spietata dei terroristi sarebbe prova che dietro c’è una mano straniera. Sono efficienti, dunque stranieri o diretti da stranieri. A questo è giunta l’alienazione collettiva.»
Aveva ragione Ronchey a spiegare quanto il terrorismo fosse l'effetto di uno stallo politico e sociale tutto italiano.
E quanto la crisi fosse già profonda, emerge dalle parole limpide dello stesso editoriale intitolato "Le due debolezze":
«E' l'ora di capire che in ogni aspetto del dissesto italiano, dall'ordine pubblico alla giustizia e dall'economia all'istruzione pubblica, si nasconde una cronica debolezza sentimentale per la inefficienza, per la nebulosità dei processi razionali, per il rifiuto a commisurare mezzi e fini, che si ammantano di permissività e provvidenzialismo, come di bonomia e vittimismo. E l'inefficienza, l'autoindulgenza, il difetto di lucidità, scrupolo e rigore, non sono dati accidentali ma fatti morali.»
Ma le brigate rosse scrivevano di "processi del popolo" e "imperialismo delle multinazionali".
Banalità pseudo-intellettuali infarcite di sciocchezze.
Un angosciato Aldo Moro si sarà reso conto subito, disperatamente, della pochezza dei suoi carcerieri.
Qui occorre che io sia onesto con le mie convinzioni: a mio parere, Moro comprese molto bene che una possibile strada da percorrere, per ottenere la liberazione, si trovava racchiusa in un vantaggio politico che egli tendeva a suscitare nei suoi carcerieri persuadendoli, indirettamente, a valutare l'enorme patrimonio che avrebbero tratto risparmiandogli la vita.
In che modo?
Scoperchiando i barili, quelli che era possibile aprire senza rivelare il fondo putrido.
Ma l'olezzo non mentiva.
Così, Moro cominciò a scrivere, a intessere contatti, a rivelare, ad accusare.
Quindi, il colpo di teatro: Aldo Moro libero.
Una scelta che avrebbe devastato il quadro politico.
La crisi, da tempo in atto, delle istituzioni, esacerbata dal sistema dei partiti, avrebbe certamente subito una notevole accelerazione con un Aldo Moro rilasciato, dopo quanto lo statista democristiano aveva scritto nelle sue lettere durante la prigionia.
Quelle note, articolate di sottintesi, furono viste con grande disappunto dall'establishment dei partiti di governo e degli alleati americani, già molto indispettiti dalle posizioni di Moro sul compromesso storico con il Pci e per questo favorevoli alla linea dura durante la drammatica vicenda.
Così, nacque la "frottola" di lettere scritte da un Moro non più in possesso delle proprie facoltà.
D'altronde, fiutando gli effetti sul quadro politico, di una liberazione di Moro a "inchiostro caldo", Bettino Craxi si era, per questa ragione inconfessabile, schierato sul fronte della trattativa.
E con lui tutto il Psi.
In questo consisteva il tentativo, neanche troppo sottile, dello statista democristiano.
Moro non intendeva sacrificarsi, lo scrisse a chiare lettere.
Non intendeva farlo anche per contrastare un disegno reazionario che gli si era coagulato attorno, un progetto cinico nel quale si prevedeva che sarebbe stato proprio lui a rimanere stritolato, a vantaggio di un potere reso più saldo dal suo "martirio".
E giocò la sua partita con la morte nel tentativo di fornire elementi di evidente, inoppugnabile utilità politica ai terroristi.
A questi ultimi, invece di celebrare farseschi processi, sarebbe bastato seguire e indurre Moro ad approfondire quei temi, fino a produrre un effetto davvero devastante durante quei cinquantacinque giorni.
Al termine, prendere al balzo la palla lanciata da Paolo VI con quel suo appello accorato "agli uomini delle brigate rosse" e consegnare Moro al "Vaticano", come gesto di ossequio all'unica istituzione credibile.
Avrebbero così, pur se dalla prospettiva di una vicenda d'ingiustificabile, assurda violenza, dimostrato la volontà d'incidere profondamente sulla vita politica del Paese.
Macché.
I brigatisti chiusi nel loro impenetrabile vuoto pneumatico, incapaci di chiedere in cambio della vita di Moro anche solo provvedimenti governativi su economia e lavoro, ponendo il governo con le spalle al muro, si trincerarono con stupido accanimento nei loro falsi miti rivoluzionari, apparendo infine per quel che erano: un branco d'ignoranti in armi degni di una banda di teppistelli di periferia.
Così, si arriva al quel terribile 9 Maggio 1978: assassinio di Aldo Moro, gesto insensato, crudele, vile.
Era già accaduto il 16 marzo con l'eccidio degli uomini della scorta in Via Fani.
Poi, appunto, fu la volta di Moro.
Che affrontò l'ultima prova, animato da un coraggio consapevole, da vero uomo di fede.
Di fronte ai vigliacchi, a pagarla sono sempre coloro che si trovano in uno stato di debolezza.
Si compie così una vicenda italiana, intrisa di falsi o veri complotti e di cliché pseudo-rivoluzionari.
Aldo Moro è l'agnello sacrificale sull'altare dello "status quo".
A vincere è un quadro politico bloccato, vanamente reazionario, inutilmente parolaio.
Le riforme, necessarie fin dagli anni '60, rimangono lettera morta.
Come oggi.
A oltre quarant'anni di distanza, lungo il cammino di una crisi divenuta orrenda metastasi.
Ormai portata alla luce in un modo ancora una volta drammatico: la pandemia che segnerà il XXI secolo, capace di mostrare un Paese fragilissimo e impotente, vittima di un arretramento che Moro aveva compreso e contro il quale pensò di lottare.
Il "compromesso storico" tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista doveva segnare un punto di svolta nella conduzione della politica italiana, lo snodo oltre il quale sarebbero caduti i veti incrociati che tenevano sbarrata la via delle riforme.
La visione di Moro e la sua tragica fine va letta in questa prospettiva.
Della quale i brigatisti rossi si sono fatti carnefici idioti, a vantaggio di quei poteri che pensavano di contrastare.
Altrimenti, non si capisce nulla.
E se è davvero così, non a caso, in quello stesso giorno di maggio, veniva assassinato, per ordine del boss Tano Badalamenti, Peppino Impastato, vittima di un branco di vili delinquenti di mafia.
Anche qui, la "geometrica potenza" del male fa la sua comparsa, implacabile, anche se con un'altra delle sue vesti: agisce indisturbata, rapida e orrenda come il morso di un serpente.
E possiede, anche qui, il volto inguardabile di un potere opprimente, avvinto alla "reazione".
Peppino Impastato, giornalista e uomo ammirevole, ebbe il coraggio della verità pronunciata con il linguaggio irridente dello sberleffo.
In lui s'incarnò l'impegno civile, generoso, da giornalista libero nello spirito e nell'espressione.
Un uomo che sentiva profondamente la civiltà come diritto a ribellarsi al giogo della prepotenza mafiosa, divenuta arma del potere più oscuro e avvizzito.
In un Paese che a stento, allora, ne riconosceva la letale pervasività.
In un'Italia, ancora oggi, impegnata a liberarsi da quel mostro criminale.
Rimase solo, Peppino Impastato, facile preda della brutalità.
Come rimane solo chi si trovi a convivere in un buco di serpenti che gli strisciano accanto.
Pagò.
Come Moro.
Si direbbe: altra matrice.
No, medesimo clima di decadenza.
Ma non se ne accorse quasi nessuno.
Neanche io, che ero appena un ragazzino di nove anni.
Poi, si cresce.
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