Il segno a fuoco della nostalgia
Un vecchio film. Ha segnato la mia generazione. Ha segnato me. Non bisognerebbe rivedere vecchi film. Mai guardare indietro, esistere significa avanzare: regola necessaria a sopravvivere. Eppure, la memoria non è un'illusione, ma carne viva marchiata a fuoco: non può svanire, ci costituisce. Si sa. Rimane celata in un'ombra che si svela alla luce, così, all'improvviso. Allora il segno appare, come cicatrice riaccesa, recando con sé la distanza lacerante della nostalgia, figura animata da una tenerezza silenziosa, di parole spente in un lungo tragitto che le ha lasciate indietro a risuonare come un'eco.
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Già, un'eco.
Ripetizione incessante di suoni antichi.
Mi è capitato per caso.
Pensavo di raccogliermi tra le pagine di un buon libro. Poi, un dvd tra quelli della mia piccola cineteca.
Un titolo rimasto a lungo dimenticato, come una vecchia foto.
9 Settimane e ½
Una pellicola che rimane di straordinario fascino.
Ho esitato.
No, non per la nota erotica delle scene. Che né allora e né adesso mi sono apparse fuori tono.
La ragione è legata ai sentimenti, agli anni dell'adolescenza, a quel pomeriggio del 1986, alla ragazza glamour che accompagnai al cinema, a un mondo che sembrava attendere il mio ingresso.
Sensazioni comuni, diffuse, esemplari: tutti le abbiamo sentite in noi.
Allora, la storia narrata da quelle immagini di sensazionale vividezza urbana, nella New York straripante e mescolata degli anni '80, altro non è che il riflesso della prima giovinezza?
Può darsi.
Ma c'è qualcosa di più.
E' la storia stessa: devia dai canoni della relazione amorosa e anticipa il dramma del finale, quando la vertigine dei sensi, strappati all'ordinarietà, spinge sempre più avanti il confine di un'eccitante euforia, tacendo sull'ineluttabile: quell'apice oltre il quale la caduta è rovinosa.
Come in una tragedia greca, l'inizio esaltante annuncia la lacerazione dell'epilogo.
Ecco, il film che Adrian Lyne gira con la sapienza del regista di spot di successo, con un gusto assai particolare per la qualità di ogni singola sequenza, per la costruzione scenica maestrale, per le colonne sonore impeccabili, nel fondo è una struggente, tragica storia d'amore.
Non venne compreso: lo slittamento verso la componente erotica ne ha marcato l'orizzonte d'attesa del pubblico, distratto fino a perdere la stretta relazione tra una disinibita, doviziosa sessualità e un frustrante silenzio: il vuoto di parole necessarie che i protagonisti non sanno, non riescono a pronunciare.
Sono le parole che mancano.
La tensione tra la passione sempre più estrema e la drammatica traccia muta che aleggia, sequenza dopo sequenza, mai capace di prorompere per fermare l'istante e coglierne la bellezza, è già malinconia, è già solitudine, è già separazione, è già scissione, è già ferita.
Si tratta di questo, dopotutto.
Lo vidi così il "mio" 9 Settimane e ½.
Presentivo, vagamente, il senso profondo della giovinezza: corsa esaltante di ebbrezza e di illusioni, che svelano l'inganno quando ormai è già tardi.
«E' tardi», afferma la protagonista, Elizabeth/Kim Basinger, dilaniata da un'esplosione incontrollata di sensazioni, così forti da aver appannato gli sguardi più intimi, gli sguardi che sanno vedere "dentro".
Nel gioco delle cause, questa dolorosa consapevolezza si era manifestata con una scena emblematica del testo cinematografico, un cambio di prospettiva che è immagine poetica: immersi nel chiarore soffuso di una breccia di bosco, la gallerista e il pittore si scambiano le parole attese:
«...Ecco, io non so, il modo in cui lei riesce a fermare l'attimo...».
«...E' il momento, quando una cosa ti appartiene, ed è già passato».
Quel momento, quel segno, datato 35 anni fa, è rimasto.
Indelebile.
Perché era già nostalgia.
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