Elogio dell'indolenza o sarcasmo?
Il lancio della nuova 500 Hey Google. Lascia sconcertati. Lo spot pubblicitario è un segno dei tempi: per capire le epoche recenti, quelle che costellano la galassia del '900, basterebbe guardare la pubblicità, in tutte le sue forme. Si tratta di modelli di comunicazione che utilizzano registri stilistici e toni molto diversi, tuttavia accomunati dalla medesima necessità di interessare i 'pubblici', suscitare lo spirito d'emulazione, provocare o semplicemente amplificare o ammiccare alle tendenze sociali e culturali in voga.
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Giudicare uno spot entro le maglie, strette o larghe che siano, del moralismo, varrebbe ad ammettere inconsapevolmente di essere un cretino.
Guidato dal quel minimo necessario di amor proprio, non lo farò.
Ma c'è un'altra ragione ad impedirmelo: uno spot, la pubblicità in generale, non sono modelli guida, contrariamente a quel che si ritiene superficialmente.
Sono invece il riflesso di modelli sociali già pronti per essere intuiti da copywriter svelti a capire.
Il caso dello spot sulla nuova "Fiat 500 Hey Google" è emblematico di quest'evidenza spesso disdegnata da coloro che perseguono la politica dello struzzo o che, facendo di peggio, sorridono o ridono con la volgare percezione di nascondere agli altri - oltre che a se stessi - l'oscuro presagio della decadenza.
Lo spot va già da qualche tempo- ora di meno, forse c'è una ragione - su tutte le reti televisive e mostra un trio di ragazzi debosciati ai margini di una piscina, intenti a smozzicare inutili programmi per la giornata, resi vani dall'interrogazione "on line" dell'app connessa alla "loro" autovettura, consultata la quale decidono di astenersi per la distanza di ben cento metri dal loro comodo crogiolarsi al sole.
Dico la "loro" autovettura perché questa è in realtà la vettura che avrà comprato "loro" uno dei tanti papà o mamma imbecilli che costellano questo nostro mondo di italiani e forse anche di europei indolenti e abituati alla comodità.
Un giorno, ad uno dei più grandi velisti del mondo, Sir William Blake, fecero questa domanda: «Lei che ha visto il mondo e conosciuto questo pianeta in tutte le sue pieghe, dalle tempeste alla bonaccia, dalle albe ai cieli stellati, che cosa le ha insegnato la vita?».
La risposta, secca, fulminea ed efficace fu: «Tutto quello che è comodo è stupido!».
Non occorre fare una ponderosa esegesi di questa frase per coglierne la rivoluzionaria portata, la stessa che fa ritenere la sofferenza la più solida "magistra vitae", infallibile, determinante.
Succede nella scuola, succede nelle famiglie, succede nelle università, al contrario, che si tenti la strada più comoda, quella che un modello clientelare affermato come tratto culturale del nostro tempo, fornisce a piene mani, riducendo il principio della fatica a difetto di sistema, condannando implicitamente le generazioni di questi anni al nulla della loro inutilità.
In Italia, quest'approccio al "mammismo patologico" di padri e di madri, di genitori francamente deficienti e deficitari, è ormai involuzione culturale patologica.
Si assiste alle scene e si ascoltano i racconti di pseudo-genitori che si preoccupano della dieta dei figli o del loro stato psicologico e persino della loro sfera sessuale-sentimentale, o di aiutarli negli studi con lo stesso sagace senso del dovere che li induce a sobbarcarsi, loro, il peso dello zaino per tutti gli anni di scuola o a raccomandarli per ogni singolo esame all'università, disinteressati a quel che diventeranno questi bambocci e queste bamboline indolenti fin dalla nascita, quanto piuttosto impegnati a trovare loro il lavoro - sempre con le indispensabili raccomandazioni - e la casa - pagata sempre da loro - dopo averli imbottiti per anni di tutte le comodità domestiche possibili.
Non sono genitori: sono bancomat umani.
I figli? Alghe spugnose in balia delle correnti.
Che purtroppo, poi, ci ritroviamo negli ospedali come medici e nei tribunali come giudici.
Se è vero che la borghesia occidentale si è data, da sempre, l'aristocrazia come modello sociale, imitandola, è pur vero che la "migliore" - accontentiamoci - borghesia si è affermata sul moderato e banale principio del "prima il dovere e poi il piacere", entrambi praticabili nell'alveo della responsabilità.
Verso l'azienda, verso la famiglia.
La borghesia peggiore, invece, quella che imperversa maggioritaria in quest'occidente decadente, altro non è che la pessima imitazione del più grottesco lassismo che si possa immaginare, roba che farebbe orrore persino al soggettista dei film di quell'icona che è stato Alberto Sordi.
Il quale, detto senza mezzi termini, ha saputo dipingere gli italiani con straordinario, spudorato e realistico sarcasmo.
Eppure, a tanto non sarebbe arrivato.
E nemmeno il grande Carlo Verdone.
Forse, Mario Monicelli si sarebbe divertito, facendo masticare allo spettatore un retrogusto amaro come il fiele.
La verità è che la famiglia prevalente, quando è agiata e spesso anche quando non lo è, racchiude, da troppo tempo ormai, un mondo diseducativo e irreale.
Sforna adolescenti tristi e lamentosi, sbruffoni e cacasotto, dediti al consumo smodato di qualunque cosa: alcol, sesso, stupefacenti, vestiti, denaro, cibo, telefonini.
Pronti a fare i tiranni in casa salvo sciogliersi fuori.
Un'infanzia prolungata, con tanto di premure affettuose, in casa, che corrispondono ad un ovvio, mancato riconoscimento sociale non appena, della casa, ne varcano la soglia.
Consiglierei di ascoltare una delle tante, eccellenti conferenze di Paolo Crepet, celebre per le sue parole efficaci e per una capacità di disamina spietatamente vera.
Questa situazione costituisce l'alibi perfetto per genitori e figli.
Così, la pubblicità non fa altro che recepire il quadro culturale, portandolo verso il parossismo: una caratteristica del racconto assai utile per creare "personaggi" che giocano sul confine tra il verosimile e il reale.
D'altra parte, questo è suo mestiere: indurre e orientare desideri.
A volte gli riesce bene, a volte lo fa male.
In questo caso, non è andata bene: la caratteristica principale del prodotto è talmente insufficiente a costituire la "reason why" che essa stessa ha malamente influenzato il progetto di comunicazione.
Ma questo non giustifica la scelta, forse la spiega.
Dunque, aveva ragione William Blake.
Parafrasando, si può concludere che ad essere "stupida" è anche la ricerca del superfluo.
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