Il volto desiderato degli spettri

Il fascino della trasposizione cinematografica di un romanzo è tutto contenuto nei volti dei personaggi. Figure solo immaginate, immagini sfocate, appena accennate nella mente, corpi immateriali ai quali si destina il soffio ideale della fantasia di ogni lettore, fattezze che, in definitiva, sono possedute da ogni lettore e che nessun lettore può trasmettere ad un altro in guisa di trama o di introspezione narratologica, psicologica, ermeneutica del testo. Ebbene, questi fantasmi che popolano la vita onirica e del tutto slegati da qualsiasi riferimento, pur il più puntiglioso che il segno linguistico possa offrire, d’un tratto si palesano, prendono forma, parlano, si muovono nello spazio cinematografico, assumono connotati non verbali, agiscono inoltrandosi in una dimensione familiare anche se mediata dalla limitante condizione funzionale delle scene. Un’altra vita, insomma.

E tutto quello che è stato fin lì il frutto complesso e stratificato dell’immaginazione, quel susseguirsi incessante dell’idea del personaggio che muta di istante in istante, si scioglie e si ricompone nella massa gelatinosa dei costrutti mentali, assume la sua definitiva antropomorfizzazione. 
E nulla, nella mente del lettore, sarà più come prima. 
Egli non potrà fare a meno di ripensare quell’immagine proprio a partire da quella forma che il regista ha inteso dare, annullando per sempre le dissonanze, standardizzando nei pubblici quelle figure che l’autonomia e la libertà di pensiero avevano reso plurali, infinite quanto la moltiplicazione delle esistenze reali con i moti individuali sparsi nel tempo della vita.
In quanti modi, infatti, ciascuno di noi ha vissuto nei meandri della mente gli spettri dei mille personaggi della letteratura, magari rileggendo i testi o anche solo ripensando ad essi. 
E come potremmo definire questa condizione personale dell’immagine interna se non come atto creativo, se non come intuizione/espressione di “crociano” magistero?


Il cinema diventa dunque evocazione e suggello formale dell’informe: un atto di liberazione dal muto immaginare che scava solchi abissali nei quali si ha timore di guardare tanto è buia la loro profondità. 
Chi è credente non desidera vedere Dio? 
Non desidera forse che Dio compaia e parli? 
Tutti noi desideriamo rivedere i nostri cari perché nessuna consolazione può costituirsi nel silenzio delle rievocazioni mentali, nell’oscura voce che ci convinciamo di udire immaginando di sentire il messaggio quotidiano di coloro ai quali eravamo uniti in vita da ancestrali affettività. 
E’ l’immaginazione che diventa fede o fede carpita dagli imbonitori delle religioni sui cadaveri appena ricomposti nella loro eterna rigidità che pietrificano anche le menti più forti in un afflato teso verso fragili appigli di senso. 
E’ la paura che smuove le convinzioni più solide e che chiede, attraverso una voce che non ci appartiene perché mediata socialmente dai buffoni della verità tenuti eretti dalle moltitudini ignobili che fanno del pensiero un tanto al chilo, null’altro se non di vedere e di sentire un brandello di eternità, qui, in mezzo a noi, visibile, reale, inconfutabile, l’apparizione che sancisce la trasformazione, che rassicura, che strappa la disperazione dell’abbandono e la furia del disperato.
Ecco, dunque, la trasposizione cinematografica come trasposizione del desiderio impossibile di un’immagine di morte.


Questo, in definitiva, il fascino del personaggio che emerge dalla pellicola e questa, in antifrasi a Benjamin, l’aura che finalmente si ammanta dell’unicità e dell’irripetibilità del tratto identitario di un attore, incarnante il segno linguistico che lacerava la nostra mente a causa della sua informe presenza.
Eppure, quell’incarnazione annulla, si è detto, la singolarità di un atto creativo, dell’espressione individuale che corrisponde ad un’appartenenza essa stessa irripetibile, essa stessa identitaria, essa stessa unica, consegnandoci un’immagine standard che vale per tutti e che nessuno potrà più cancellare dalla propria mente, che non è più connotazione ma denotazione marchiata a fuoco. 
L’omicidio collettivo delle immaginazioni, una brutale violenza che massifica ed annulla allo stesso tempo: insomma, uno stupro mentale al quale, tuttavia, ci si rassegna proprio perché è possibile metterlo in relazione con il contenuto di una visione mistica dell’oltremondo.


In fondo, il modello costitutivo del consumo è la rassicurante standardizzazione, la ripetizione ossessiva che rende familiari e quindi riconoscibili le immagini e, attraverso esse, identificabile in uno schema cognitivo la rappresentazione collettiva di quella che con leggerezza chiamiamo la realtà.
Qualora la trasposizione cinematografica sia anche esteticamente coinvolgente, lo spettatore/lettore si può anche autodefinire felice. E’ molto più appassionante leggere il "Dottor Zivago" immaginando il volto di Omar Sharif e di Geraldine Chaplin, Rod Steiger e Julie Christie piuttosto che spettri della mente. 


Ma capita di vedere un pessimo prodotto cinematografico come il "Maestro e Margherita" (film del 1972), per giunta con i volti e l’interpretazione di Ugo Tognazzi, Mimsy Farmer e Alain Cuny, e si ha il desiderio di una lobotomia per cancellarne il ricordo (più che per gli attori per la sceneggiatura e le atmosfere da criminali della penna e della macchina da presa).
Nel cinema vale il concetto della “libera interpretazione” ma c’è un limite che imporrebbe l’onestà intellettuale di non utilizzare il titolo del testo letterario d’origine per tracciare una distanza dal “liberamente interpretato”. 
Il rigore filologico dovrebbe essere la bussola di ogni tentativo di traduzione del testo letterario in testo cinematografico. 


Un lavoro profondo che la settima arte raramente ha saputo generare e che appartiene ai grandi registi del novecento: Visconti con il Gattopardo, Stanley Kubrik con Odissea nello spazio tratto dai testi di Arthur Clarke, il richiamato Dottor Zivago per la regia di David Lean. 


Sono quelli che mi sovvengono nell’immediato, ma sono molti gli esempi che rinnovano e caratterizzano la trasposizione in modo convincente, che “rileggono” avendo scoperto il codice segreto che si nasconde in ogni testo letterario degno di quest’appellativo.
Poi, ci sono casi nei quali un apparente stravolgimento, un’interpretazione giudicabile di primo acchito molto libera, si rivela assai vicina all’istanza narrativa del testo, ponendosi addirittura come modello ermeneutico. I casi sono rari, ma almeno uno è possibile indicarlo: Il Processo tratto dall’omonimo romanzo di Franz Kafka per la regia di Orson Welles (1965).


Per quanto l’epoca dell’ambientazione sia radicalmente diversa da quella che si deve ipotizzare nel romanzo; per quanto la sequenza delle scene sia mutata rispetto a quella del testo letterario; ebbene, nonostante una tale inequivocabile modifica, sia il contenuto del romanzo, che la struttura permangono intatte. 
Non si tratta di un gioco di magia. 
Il punto è che il capolavoro incompiuto di Kafka non possiede concreti ed identificabili fattori di riferimento spazio-temporali. 
Mantenendo le attese di struttura e di contenuto, la forma del testo può quindi essere adattata senza perdere nulla della sua dimensione di “dramma onirico”. 
Kafka taglia il linguaggio con precise e secche saette di rasoio, senza perdersi in descrizioni e con una decisa immersione nel contenuto della storia, tali da anticipare qualsiasi adattamento. 
E quello di Welles che, sapientemente, usa ampi stralci del testo originario, risulta così naturale anche in chi ha letto il romanzo, da suscitare un sentito applauso di approvazione. 
Welles legge il romanzo e lo narra interpretandolo a partire dal soggetto cinematografico implicito in esso contenuto. 
La duttilità delle molteplici possibilità di lettura del racconto è, del resto, concepibile nell’alveo del concetto di mito, un mito moderno. 
Il mito inteso come metafora permanente, de-contestualizzazione e ri-contestualizzazione necessarie a rappresentare quanto le parole non riescono a connotare o, anche, a nominare, a denotare. 
Il romanzo di Kafka è una rappresentazione innominabile che chiede alla struttura del mito le parole per spiegarsi.
Non è per caso che Welles collochi la “parabola della legge” (che in origine si trova in coda al romanzo), al principio del testo cinematografico aggiungendo, sempre in premessa, come un peritesto, il riferimento all’incubo, alla dimensione del sogno indotto dal subcosciente. 
E la linea annunciata dall’esergo si sviluppa coerentemente lungo l’intera pellicola, nella quale quei tagli di rasoio semantico-sintattici che caratterizzano lo stile narrativo del romanzo, rivivono pienamente nel montaggio e nelle inquadrature.


L’esempio citato permette qualche ulteriore digressione sul tema del rapporto tra cinema e narrativa letteraria. 
La cinematografia è necessariamente rilettura oltre che filologia testuale. Perché il testo letterario si scioglie in un medium profondamente diverso da quello d’origine e con una potenza figurativa prorompente. 
Ogni “medium” ha il proprio specifico linguaggio e questo non può essere ignorato. 
La trasposizione meccanica di un testo può risultare incompatibile con il dinamismo connesso al delicato gioco delle immagini cinematografiche. 
L’uso di modalità analogiche nel montaggio è, nel caso specifico, la forma con la quale rispecchiare la vertigine angosciosa suscitata dalla lettura del romanzo. 
Qui prendono corpo le accelerazioni e le decelerazioni che il testo, quando non è tradotto in sceneggiatura, non contempla e non indica sul puro piano filologico. Che tuttavia esistono, come già rammentato, nella prima delle trasposizioni ricostruttive per immagini: quella mentale di colui che legge.
L’immagine diventa metafora: ogni singola parola è metafora. Ogni significato è metafora. Ogni significato è immagine.
Questa è la forza del cinema rispetto alla letteratura. 
Il cinema parla nel linguaggio della mente. Il testo letterario e la parola impongono una traduzione in immagini. 
Si potrebbe obiettare: anche il cinema contiene ed usa l’espressione verbale che ne è divenuta parte costitutiva. 
Nulla di più lapalissiano. 
La parola non è una sottocategoria, semmai è una sovrastruttura necessaria in quanto processo primario delle rappresentazioni mentali. 
Perché, dunque, negarne l’uso e la funzione anche nel cinema. Se un dipinto potesse parlare saremmo più felici! Insomma, non è questione di gerarchia ma di rapidità. 
Fu Andy Warhol a dire: «...trovo più facile girare film che dipingere»


La voluta banalità denotativa del concetto dell’artista pop corrisponde ad un pensiero più profondo e radicale che si attua nella relazione temporale tra creazione e fruizione, immediata, corposa, sinestetica. Faccio un balzo a latere e penso al teatro, un mondo nel quale i testi sono innanzitutto letti accuratamente, studiati, discussi. 
Lì la condizione dello spettatore è forzata nella commistione tra l’immagine tridimensionale - che però ha i connotati della pura evocazione di scenario – degli attori sul palcoscenico, e la immaterialità del testo recitato oralmente – quindi vissuto nella dimensione della comunicazione verbale e non verbale.
Ma come mai a teatro non si avverte la criticità della relazione tra il testo letterario e la sua trasposizione? 
Perché l’azione degli attori struttura i caratteri degli attanti nel dialogo o nel monologo che non ha bisogno delle “ricuciture” del montaggio. 
Si può fare a meno del narratore (nonostante le innovazioni del teatro epico di Brecht) ed il risultato si presta più facilmente ad essere soddisfacente perché vicino al testo d’origine, atteso che al teatro manchino i mezzi potentissimi della trasposizione cinematografica.
Mezzi che spesso il cinema non usa, però, con sapienza, a volte auto-castrandosi nella produzione di pessime pellicole, altre volte debordando nelle digressioni e nei panegirici della sua forza estetica, annullando il necessario equilibrio delle sue componenti: voci, dialoghi, suoni, musica, capacità mimetiche e possibilità di espressione virtuale infinita.


Tutto questo è davvero indispensabile per un testo narrativo? Voglio dire: un testo narrativo diventa migliore quando si sublima in testo cinematografico?
Direi di no. 
Convive con esso. 
Il Processo di Welles” è un testo diverso dal “Processo di Kafka”. L’uno non si esaurisce nell’altro o viceversa. 
Ognuna delle due forme mantiene la propria identità nella relazione con i pubblici. 
Semmai è misurabile il grado di compatibilità realizzata, nel travaso di contenuti dall’uno all’altro.
Partendo dallo stabilire l’incolmabile distanza tra le due forme creative e la diversa struttura degli orizzonti d’attesa nei pubblici.  
D’altronde, “The tree of life” di Terrence Malick, è sublimabile in testo narrativo? 
Anche qui rispondo con un no. 
Ma voglio essere meno laconico e provare a schiarire un altro elemento emergente.
Ipotizziamo di raccontare in forma di testo narrativo, l’opera cinematografica indicata, "The tree of life"


Ebbene, è innegabile che la storia possa essere narrata in un racconto. 
Le frasi, le scene, il carattere dei personaggi, la descrizione delle ambientazioni e via andando.
Un lavoro difficile ma possibile. 
Quale dovrebbe essere il fine? 
Nessun dubbio: dovrebbe riuscire, il testo narrativo, a ricreare le atmosfere estetiche del testo cinematografico. 
Ma questo non è possibile pienamente. 
Quello è un testo nato per essere cinematografico, dunque dobbiamo supporre che sia in quell’ambito che possa esprimere tutta la sua forza creativa e comunicativa. 
Tuttavia, per questa via dovremmo ammettere che quella distanza tra cinema e narrativa letteraria che si è ipotizzata, subisce la soverchia forza della prima sulla seconda. 
Ebbene, non è così, perché solo mantenendo separati i due piani espressivi si può concedere la loro relazione. 
E’ possibile tradurre in testo narrativo il film di Malick ma costruendo con altri mezzi la traccia di fondo del significato. 
Se fosse Proust a scrivere questo romanzo, ne trarrebbe 14 volumi intensi. 
Musil ne farebbe un saggio ponderosissimo. 
Mann un romanzo splendido che narra del contrasto tra natura e tecnologia, del dolore e della morte, dell’incanto del creato e della sua natura brutale, della bellezza e del desiderio, dell’essere e il nulla, chiamando in causa il protagonista come testimone di accese dispute tra redivivi Settembrini e Naphta.
Per Kafka sarebbe la rielaborazione della colpa nel richiamo al peccato originale. 
Joyce ne farebbe un lunghissimo monologo. 
DeLillo lasciamolo dov’è perché è già complesso di suo. 
Roth saprebbe cavarne un’immagine disperata dell’America e delle sue illusioni. 
Will Eisner farebbe una gran fatica con i comics: come ricostruire il "Big Bang"
E’ come se il testo letterario possedesse tutte le potenzialità espressive del linguaggio alfabetico, fatto di parole, potenzialità per questa via molto più estese di ogni altra forma di rappresentazione. 
E possedesse anche una capacità di evocazione dell’immaginario notevolmente superiore a quella di ogni altro mezzo espressivo. 
Ed una facoltà ancora: quella di suscitare la riflessione interpretativa che la connotazione ampia delle parole, moltiplicata dalla loro costruzione sintattica, inevitabilmente induce. 
Insomma, la trasposizione non è solo un complesso congegno adattativo: è creatività nell’ottica di un mezzo diverso che agisce con un linguaggio diverso. 
Questa semplice osservazione sembra essere troppo spesso ignorata nel mondo dell’arte. 
Quei gran dritti dei pubblicitari lo sanno bene che la comunicazione si deve adattare al mezzo per risultare efficace e non il contrario e che la crossmedialità non è un processo semplice, automatico, meccanico: dato un concept, definito il pay off, la struttura del messaggio (stile, linguaggio, narrazione) cambia in funzione del mezzo e dei fruitori: l’orizzonte di attesa che citavo qualche pagina fa e che traggo dalle acute riflessioni di Jauss. 
E non è detto che la stringatezza del messaggio non imponga un lavoro molto accurato e complesso.
In questo solco, il caso emblematico è rappresentato dai racconti di Carver trasposti in America Oggi (Short Cuts) di Robert Altman.


Questi recupera pienamente la causticità ma non la caduta di un disegno unitario che caratterizza i racconti di Carver, segnando con modalità espressive proprie del cinema (non solo le immagini ma anche i suoni e i dialoghi) la costruzione delle atmosfere evocate dalla narrazione, facendo sapiente uso di artifici che alterano le storie, le comprimono e le dilatano in un progetto unificante che in Carver mancava perché non avrebbe avuto alcuna sensatezza costruire un intreccio tra i diversi racconti per il fine dissonante che essi si proponevano. 
Stesso fine ma modalità diverse nel film di Altman.
Relazione e distanza. 
Un rapporto libero, aperto ma non banale, profondo e ricco, quello tra cinema e narrativa letteraria. 
Due mondi che si amano e si odiano, che si lasciano e si ritrovano. 
Distanza e relazione. 
E sarà sempre così.

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