Il doppio sguardo

Settima arte. Sì, neanche l'ombra del dubbio. Il cinema è come un vaso di Pandora delle emozioni, che divengono sentimenti intensi, sentinelle di abissi insondabili. Non si tratta solo del fenomeno delle immagini che scorrono innanzi a noi, ma di uno sguardo che all'improvviso si lacera fino a penetrare in territori accessibili solo a ciascuno di noi, laddove si parla il linguaggio originario, quello poetico, quello delle "madri": l'irrazionale che è fonte di un'inquietudine necessaria. 

Non mi capita spesso. 
Quando accade, la parola incombe, come eco di un suono mai ascoltato eppure da sempre in attesa di noi. Ed è accaduto, di nuovo, qualche sera fa, in una di quelle notti insonni nelle quali ti affidi al caso lasciando che un film si assuma l'onere di giustificare l'inquietudine. 
Così, è apparso "The tree of life", il capolavoro di Terrence Malick, edito per la prima volta nel 2011 e Palma d'oro a Cannes nello stesso anno.
Così, sono apparse le parole:
Delicata fino ad essere commovente. 
Commovente fino a diventare favola. 
Favola della vita e del mistero della vita. 
Favola della natura e del mistero della natura. 
Favola degli uomini e delle donne che si alimentano all’unica fonte: l’amore. 
Tutta la vita può essere un gesto d’amore come piantare un albero. 
Scavare un letto di terra che ne accolga le radici. 
Proteggerlo e nutrirlo ancora con la terra lieve perché l’acqua possa diventare sorgente del suo risveglio. 
Cresci possente, figlio diletto dell’amore di mani attente. 
Confida nel tuo destino.
Accetta il tuo fato. 
Non dolerti del vento e succhia ogni goccia di pioggia. 
Protendi i tuoi rami al sole. 
Poiché l’amore che ti ha dato forma si alimenti del tuo donarti alla vita.


E' quanto rimane al termine del racconto cinematografico di Malick, saturo dell’inaspettata potenza dei colori e dei suoni, immerso profondamente in una narrazione limpida, sintesi mirabile di un inno alla vita, onirica visione, linguaggio puro dei sensi tra immagini cornice della musica, un’inversione di ruoli che istituisce orizzonti infiniti di senso con la placida dolcezza di una passeggiata mano nella mano.


Il mistero non è risolto perché non vi è nulla di materiale che possa saturarne l’inconsistenza. 
Ogni accenno alla lotta, agli strepiti, alle grida, all’odio, non produce effetti. 
Il racconto della vita è racchiuso nel suo stesso flusso, il mistero è nella sensazione immediata, nella sensazione che si trasforma, quasi, in percezione tattile, nell’intuizione che nasce espressiva alimentata dallo scorrere di immagini, suoni e sussurri di senso. 


Se fosse un testo letterario sarebbe pura poesia, lirica piana e soave. 
Una morfologia delle inquadrature che traduce se stessa in parole: carezza, sguardo, nostalgia, semplicità, gioia, brezza, calore, mani, sorriso, colori, lacrime, intensità, abbraccio, curiosità, passione, contatto. 


Non riesco a capacitarmi che il testo cinematografico di Malick possa essere confuso nell'etichetta vincolante e angusta di espressione della poetica postmoderna: è la poetica e il linguaggio della narrativa lirica contemporanea a risultare congeniale al suo atto creativo. 
Racconto che assume la forma della poesia. 
Poesia che si apre al racconto.


La lunga riflessione del personaggio principale, lunga quanto l’intero film, è un’intima scoperta del soprasensibile, dialogo aperto e mai sopito, radice di un amore che supera il tempo e destruttura l’immane artificiosità della dimensione urbana, materiale e insignificante, asettica e alienante, per ritrovare il nucleo primigenio che congiunge lo spirito al gesto, che annulla i confini, che salva l’anima dal dolore della materia e connota l’uomo di un tratto di unicità nell’infinito cosmico, nel sublime romantico ammirato e temuto.
La vita, il suo mistero. 
Sul quale occorre posare il capo.
Fino a lasciarsi sognare.

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