Il Canto di Ulisse
Il 25 aprile, in Italia, non è un giorno come un altro. Ma nel tempo, il ricordo sbiadisce e la memoria si fa freddo riflesso storico. Lo sa bene Alessandro Barbero, sempre impeccabile nelle sue analisi. Sottolinea come gli animi si accendano ancora in trite etichette di parte, scavando solchi incomprensibili che non aiutano a capire il valore di una tragedia, il dolore di una 'guerra civile' come la definì in un testo nitido lo storico Claudio Pavone. Per celebrare questa ricorrenza, che idealmente tengo unita al 27 gennaio, "Giorno della Memoria", scelgo di parlare di Primo Levi e del suo 'Se questo è un uomo', traccia indelebile per tenere vivo il senso dell'esserci, in un umanesimo di perenne ricerca.
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C’è qualcosa di sublime, di limpido, di inarrivabile nella vicenda umana ed artistica di Primo Levi.
Mentre scrivo, non posso dire di saperlo esattamente, non posso dire di poterlo spiegare, ma c'è.
Spero, scrivendo, di farlo emergere affidandomi alla coscienza che fin da bambino, nel distinguere le categorie di bene e di male, sorge inconsapevole ma puntuale a suggerirmi i pensieri e la condotta.
Già, i pensieri e quindi la condotta di fronte alle varianti vicende della vita, alla ricerca, in ogni occasione, del comportamento giusto, quasi che questo contasse più del pensiero che lo deve animare, più della necessità di attingere ad una vasta congerie di valori e dell’adesione convinta ad essi.
Pensare, per scorgere il male anche quando si nasconde furtivo nella nostra indifferenza, quando soggiace sotto la giustificazione puerile dell’interesse egoistico per ergersi a fine assoluto, quando si cela nel mucchio delle parole o nel gesto stizzito di colui che non vuole vedere, non vuole sapere, non vuole capire.
Perché il coraggio di dichiarare il male e la forza di affermare il bene non è dei molti, ma è sempre di una minoranza sparuta e persino tollerata.
Dunque, è il pensiero che attinge liberamente nella coscienza il tratto inafferrabile di ogni azione, il pensiero che ci distingue, il pensiero che, nel fluire incessante della storia, nella brutalità del tempo e dello spazio nei quali siamo immersi, fissa indelebilmente un punto di principio: l’esserci.
Nel 1987, Primo Levi concesse a un altro grande narratore, Philip Roth, un'intervista rimasta celebre per l'alto valore complessivo del suo contenuto.
In questa, Levi, tra l'altro afferma:
«… quello che tu dici, e cioè che per me il pensare, l'osservare, è stato un fattore di sopravvivenza, è vero, anche se a mio parere ha prevalso il cieco caso. Ricordo di aver vissuto il mio anno di Auschwitz in una condizione di spirito eccezionalmente viva. Non so se questo dipenda dalla mia formazione professionale, o da una mia insospettata vitalità, o da un istinto salutare: di fatto, non ho mai smesso di registrare il mondo e gli uomini intorno a me, tanto da serbarne ancora oggi un'immagine incredibilmente dettagliata. Avevo un desiderio intenso di capire, ero costantemente invaso da una curiosità che ad alcuni è parsa addirittura cinica, quella del naturalista che si trova trasportato in un ambiente mostruoso ma nuovo, mostruosamente nuovo.»
L’atto del pensare come un fattore di sopravvivenza, nelle condizioni più disumane che si possano immaginare, è stato, per Levi il cardine dell’essenza, l’elevarsi oltre la brutalità bestiale e insensata, l’afferrare saldamente se stesso oltre le pene corporali e psicologiche, alla ricerca del valore reale dei fatti e degli avvenimenti che lo avevano trasportato nell’inferno in terra.
Quella da lui vissuta assieme ai suoi compagni, è una condizione che il pensiero, l’essere vivente, assume come privilegiata poiché inconcepibilmente estrema nella sua realizzazione, forma orribile di quanto ci sia di più abietto, di quanto ci sia di più distruttivo proprio della coscienza.
Ecco, il pensiero ritorna in campo, risorge, si affaccia sull’abisso per contemplarlo, per comprenderlo.
E mentre sembra nutrirsi di un’esperienza unica ed abnorme, cerca subito la ruota immaginaria del timone, per stabilire la rotta e governare il vascello nel mare delle grida, dell’orrore, della disperazione, dell’annullamento, dei brandelli di carne e di ossa ancora animati da una sempre più flebile pulsione vitale della coscienza, schiacciata sotto le maglie mostruose dell’incoscienza sadica che si pasce del dolore grondando umori insani.
Levi come Ulisse, errabondo «com’altrui piacque», non può distogliere la mente dall’essere, dalla sua riscoperta: posso pensare, posso vivere, fino all’ultimo istante, come un uomo.
Ed è questo che gli permette d’intuire la grandiosa immagine del limite invalicabile vissuto come liberazione e scopo, forza orgogliosa e travolgente capace di distendere le sue ali e prendere il volo.
Nel Canto di Ulisse, non è la visione dell’immanenza divina che egli vuole farci cogliere.
Troppo semplice accettare il verdetto del Dio misericordioso che dovrebbe albergare tra le immagini dell’umanità in putrefazione.
Sarebbe ingenuamente lineare: l’inferno, la Commedia, Dio, la rassegnazione, la forza, la salvezza.
No, non è così.
La risposta va ricercata in un’altra direzione, che non è teologica e non ha neanche i caratteri della filosofia.
E’ materiale e spirituale nello stesso tempo perché il pensiero è carne viva e soffio vitale, inscindibili e inafferrabili al di sopra dell’olezzo che promana dalle più indegne divise di morte.
Prigioniero agli inferi, in quel momento non spera in nulla, non ha Dio accanto a sé: non ha salvezza, non ne vede neanche il più piccolo spiraglio.
Attenzione a questo elemento e al significato del “pensare e dell’essere”, altrimenti quelle pagine scantonano solo nel lirismo del sopravvissuto: Levi sa di incorrere nel rischio quotidiano della morte, sa che la vita può finire da un momento all’altro e che di lui resterà un mucchietto di cenere o, tutt’al più uno scheletro deforme.
In questa scia di terribile e costante presagio, chiude il capitolo rammentando il verso: «infin che l’mar fu sovra noi richiuso».
Ma ha l’orgoglio dell’essente, l’orgoglio della coscienza che è essa stessa salvezza perché incarna lo scopo ultimo dell’uomo: «fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza». L’uomo pensante di vivida e profonda intelligenza, pur colpito e condotto in ceppi sul sentiero dell’annichilimento, raddrizza la schiena, acuisce lo sguardo e trova l’essenza perduta, oltre le pene, oltre la morte, oltre ogni implorazione al divino: la vita, se è vita vera, deve essere vissuta con tutta la ricchezza intima e poetica dell’uomo.
Innanzi a Levi/Ulisse compare il lager/colonne d’Ercole, il limite invalicabile che è sfida al divino ma che è anche sfida all’inferno, alla punizione divina che irrompe a giudicare immorale il desiderio di conoscenza.
Ed è coraggiosa consapevolezza dell’assenza del Dio, perché l’inferno di Levi e dei suoi sventurati compagni di sofferenze non giunge ad esito di un gesto immorale, ma come inimmaginabile “suscitante” della riflessione morale che sembrava scomparsa tra i carnefici immondi.
E’ il buio più nero che sortisce la luce, è il negativo che dà corpo al positivo.
E’ il turpe, il laido, il ripugnante dell’oppressione che dà vita al lirismo della Poesia.
Qualcuno potrà anche vederci un segno divino.
Io ci vedo altro: è Levi stesso a scriverlo.
Propone il senso della sfida dell’uomo razionale e morale, dell’uomo che immola se stesso sull’altare laico della conoscenza.
E' esplicita la scelta: «...ma misi me per l’alto mare aperto».
Proponendo ed insistendo su questo verso, Levi si staglia come un gigante di puro spirito al di sopra della corporeità.
Immerso in quell’inferno, che tutt’altro dovrebbe suscitare, egli cerca disperatamente l’uomo e vuole, deve, spiegarlo ai compagni, a "Pikolo", la figura che incarna l'umanità in attesa di una parola che sorga a mostrare il significato dell'esistenza.
E bisogna farlo in fretta, perché il tempo è scarso, perché la morte può sopraggiungere e non deve trovarci impreparati.
Ecco: finalmente, mi appare in tutto il suo vigore l’immagine sublime, limpida e pura evocata all’inizio.
L’essenza dell’uomo, il pensiero, libero, spinto coraggiosamente oltre i limiti dell’asservimento materiale, implacabile vincitore della mostruosa ignoranza, domatore irresistibile dei sensi più cupi, guida unica della verità.
L’ultima verità, quella dell’ultimo respiro: se anche ultimo, deve essere pensiero e non agonia raccapricciante di animale ferito a morte, abbarbicato fino all’ultimo istante alla salvezza materiale.
No, l’uomo muore pensando.
Pensando se stesso e pensando il mondo.
Se questo è un uomo!
Qui, io vedo, il senso profondo del testo di Levi.
Il quale, al commisurato termine del percorso di vita, dopo avere prodotto quanto le capacità d’intellettuale gli hanno concesso, ha tolto il disturbo.
Per scelta.
Dignitosamente.
Non per consunzione.
Leggere Levi è un dovere per la coscienza di ciascuno di noi.
Perdio!
Ognuno di noi esseri umani, se di uomini si tratta, glielo deve.
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