Dante prima della 'Commedia'

Nel pieno delle celebrazioni dantesche a 700 anni dalla morte della più citata fra le "Tre Corone" della nostra letteratura, provo a narrare un Dante meno conosciuto: esiste, infatti, una “letteratura dantesca” oscurata dai fasti della Divina Commedia. Si tratta del "primo" Dante, capace di versi delicati e potenti, il Dante “stilnovista”, ancora cittadino della Firenze nella quale si forma una visione ideale del mondo e delle relazioni tra gli uomini. Forse non è più Medioevo e non è ancora Umanesimo. Ma le classificazioni non contano: è letteratura immortale, ancora in grado di parlare al presente.

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Lungo la penisola italiana, sempre originale nel suo stagliarsi tra le storie del mondo, la lirica cortese di matrice provenzale compie il percorso inverso a ogni previsione: non dalle Alpi verso Sud, ma dal Regno di Sicilia verso la Toscana in fermento.
Una conquista di vago richiamo punico: sorprendente perché geograficamente in cammino dal verso opposto alle attese. 
Si tratta, è ovvio, di una storia che ha un altro pubblico. 
Nel senso che quella letteratura non ha il pubblico delle corti di Provenza. 
La poesia cortigiana d’origine ha bisogno del feudo ed il feudo si regge sul principio della fides trascendente e della fidelitas verso il signore del castello. 
Ma da noi, l’unica corte disposta verso le arti e verso la poesia è quella del Regno di Sicilia, il regno di dell’imperatore Federico II, unica figura in grado di lasciare intravedere quel che mai avverrà se non in un tempo prossimo alla contemporaneità: la nascita di una nazione italiana.


Da lì, dal regno degli inventori del sonetto, quella che prova a farsi largo tra le genti italiche è una lirica di esclusivo tema amoroso che per forza deve essere piegata ad un diverso assetto sociale che è quello della civitas, della città comunale che promana da ben altri valori, anche linguistici. 
Quella lirica attraversa cerchie di intellettuali, ecclesiastici e laici, formati al trivio e al quadrivio, impegnati in fatti ed atti di legge e di governo, registra i ritmi nuovi di società nelle quali il modello dell’amor cortese si è riflesso in altri contesti, stretto tra una nobiltà che tende ad inurbarsi e nuovi ceti di una primordiale e tuttavia già caratterizzata borghesia comunale. 
Borghesia che tende a soppiantare ed a sostituirsi alla prima dopo essersi ampiamente arricchita con i commerci, altresì impegnata nei mille distinguo sul governo di borghi ormai centri sempre più vasti sia per territorio che per interessi finanziari dominanti. 


Bisogna immaginarli questi comuni italiani, brulicanti di traffici e di genti, saturi di botteghe e di chiassose transumanze per le strette vie che si allungano fino alle piazze nel giorno del mercato. 
Sulle scalinate delle chiese, gruppi di giovanastri delle migliori famiglie additano donzelle che civettuole rifiutano lo sguardo accompagnate dalle madri e dalle dame di casa. 
Uomini di potere affollano i chiostri dei palazzi mentre il subbuglio delle grida tra contraenti si mischia allo scalpiccio di mille zoccoli, ai muggiti ed ai nitriti, sotto la sorveglianze di armati sulle alte torri e lungo le mura di cinta.
In questa pigiata umanità appare la “donna mia” del sonetto di Dante. 
Ma ci arriveremo tra poco.
Dunque, la lirica, già affrancatasi con i poeti siciliani da “funzione” nel contesto della corte, diventa “espressione” e strumento di distinzione tra ceti. 
A Firenze, quella tra guelfi bianchi e guelfi neri, ennesima divisione intestina nelle già serrate lotte tra papato e impero, connota due diversi modi di essere e finirà col segnare la vicenda di Dante Alighieri, costretto all’esilio e lontano da Firenze ispirato autore di opere che rappresentano capisaldi della letteratura di tutti tempi. 
Ma il Dante fiorentino che si accompagna a Guido Cavalcanti, a Lapo Gianni, a Cino da Pistoia, a Dino Frescobaldi, alimenta sogni ideali e scrive versi ispirati al dettato concettuale di quello che egli stesso appellerà nella “Commedia” come “Dolce Stil Novo” e che avrà riconosciuto modello nelle rime di Guido Guinizelli: composizione regolare del sonetto, esclusivo tema amoroso al centro della produzione lirica, stile piano e chiaro del trobar leu che si accompagna al rifiuto della metrica sperimentale.
Si afferma il recupero della tradizione provenzale (in questo gli stilnovisti sono dei “restauratori”) ma con un carattere autobiografico, volto in parte verso l’intimismo e la figura dell’autore ed in parte verso l’esaltazione della purezza dei sentimenti e l’aspirazione all’elevazione morale. 
Poiché si tratta, lo rammento, di una produzione poetica priva di quel pubblico e dei conseguenti riflessi metaforici tipici della lirica cortese. 
C'è un pubblico. 
Ma è quello “elitario” degli intellettuali aderenti al gruppo i quali tendono a distinguersi dai nuovi borghesi, i “parvenu” dell’epoca.
Questo è il Dante che scrive le rime di “Tanto gentile e tanto onesta pare”, un Dante pienamente compreso nel contesto concettuale di Amore che s’infonde in chi possieda il “cor gentil” (“Al cor gentil rempaira sempre Amore” – Guido Guinizelli): è il segno di una nobiltà che nasce dalla conoscenza, estranea ai fasti dei nuovi patrizi arricchiti, avidi di accrescere potere e ricchezze. 


E’ in quella nobiltà che gli stilnovisti rivendicheranno per loro stessi virtù quali il coraggio, la lealtà, la purezza d’animo, sublimando tali sentimenti nella figura della “donna angelo” che tanta fortuna avrà nella lirica di quegli anni lontani. 
Anni resi immortali da quei versi e come tali, assieme ad essi, fuori dal tempo: io stesso ne darò testimonianza in questo testo. 
Ed eccoli, finalmente, quei versi.

'Tanto gentile e tanto onesta pare' (Vita Nova XXVI)
Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia quand’ella altrui saluta,
ch’ogne lingua deven tremando muta,
e li occhi no l’ardiscon di guardare.
Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente d’umiltà vestuta;
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.
Mostrasi sì piacente a chi la mira,
che dà per li occhi una dolcezza al core,
che ’ntender no la può chi no la prova:
e par che de la sua labbia si mova
un spirito soave pien d’amore,
che va dicendo a l’anima: Sospira.
E’ forte la connotazione, in senso dirimente ed esclusivo, che quel poetare rivela.
E Dante se ne fa interprete con un sonetto soave, a rime incrociate nelle quartine e rime incatenate-invertite nelle terzine, alieno da alcuna descrizione fisica – a parte il “piacente” posto nel primo verso della prima terzina, ma con un aggettivo dalla semantica assai ampia e generica – mentre in esso emergono le qualità morali, angeliche, miracolose di una figura celata anche nel nome (come da tradizione). 
Si tratta di una donna la quale compie un atto semplice, privo di solennità, riluttante ad ogni supponenza: salutare mentre passeggia, ignorando con grazia ammirevole le lodi che l’accompagnano ed ispirando con il solo sguardo sensazioni che animano lo spirito e che infondono nell’anima il respiro della speranza.
La scena che Dante inquadra è come un lampo di luce bianca che attraversa l’umana necessità infondendo la quint'essenza del sentimento amoroso. 
Tuttavia, non c’è l’esplicito richiamo a Guinizzelli, che bisogna saper intravedere: il “cor gentil “ è già in coloro che ascoltano recitare quei versi poiché solo in coloro che ascoltano o leggono quei versi apparirà Amore sotto forma di spirito, Amore che ha nella “donna mia” il tramite indiscutibile.
Poesia della lode, verrà definita. 
Poiché la lode all’amata coincide con la lode a Dio. 
E’ dunque una poesia e una poetica che non sono lontane da un riferimento alle Laudi: se ne avverte il carattere quasi che si fosse incarnato, quel mezzo espressivo di devozione, nella sublimata visione ideale dantesca. 
Ma non vi sono prove di questo, se non nelle suggestioni intertestuali.
Certo, la “Vita Nova”, quello che è stato definito il primo trattato sulla letteratura italiana, il prosimetro che Dante compone nei primi anni novanta del ‘300 e che contiene questo sonetto, manifesta i segni di un diario personale, tanto da lasciare ben fondato il dubbio che i versi appena citati, in fondo, siano rivolti a se stesso.
Un momento: può apparire ben strano che faccia quest’affermazione quando al solo leggerli l’evidenza imporrebbe di scrivere il contrario.
C’è dunque un paradosso e vorrei metterlo in luce.
Ci arrivo per tappe. 
Ecco la prima.


E’ difficile dare una chiara definizione a questo genere di azione letteraria poiché qualunque parola tracciata, poetica o prosastica, manifesta la duplice dimensione monologica e dialogica: c’è sempre un lettore. 
Ma nel profondo, ogni autore scrive solo per se stesso, sempre. 
Tuttavia, l’autore compie il suo percorso sulle pagine in gradi diversi tra le due apparenti antitesi. 
La forma è quella del diario intimo e in quest’alveo deve essere assorbita dal lettore, poiché è l'elemento ispiratore, poiché è nella forma che nasce l’atto creativo. 
E nel prosimetro che Dante adotta, il commento in prosa è il racconto intimo di un viaggio ritmato nella coscienza e l’occasione per esplorare, di questa coscienza, il sapere poetico che l’ha ispirata tra le stazioni della vita. 
Con la “Vita Nova” Dante prende congedo da quella coscienza che è tutt’uno con la forma, lo stile e la poetica dell’uomo di lettere e quindi di spirito. 
E come distaccandosi dai versi, li commenta: la forma, quindi, afferma il contenuto della sua nuova coscienza.
Eppure, gli stilnovisti, a differenza dei lirici siciliani, declamano i loro versi in pubblico, nel ristretto pubblico di quella che potremmo definire l’avanguardia letteraria del tempo: ma sempre di pubblico si tratta. 
La loro poesia riveste valore sociale, rispecchia, come spero di aver reso evidente nelle premesse, un afflato ideale che si staglia nel contesto socio-politico della Firenze del tardo ‘200. 
E allora, Dante, si rivolge a se stesso ovvero si rivolge a un pubblico, come la “lettera” del sonetto lascia emergere nettamente?
Siamo ancora nel paradosso, ma ormai vicini alla sua risoluzione.


La “Vita Nova” nasce come un diario intimo nel quale la prosa è il presente del poeta e le liriche che lo scandiscono sono il passato dello spirito del poeta. 
Lette, queste ultime, alienate dal testo che le contiene, presentano la loro dimensione dialogica. 
Lette come trama della tessitura che Dante propone, rappresentano i versi dell’anima che è stata, di un’anima che echeggia il passato di un autore che non esiste più, l’autore implicito nato e morto in quei versi. 
Una morte che prelude alla rinascita che Dante contempla di sé.
Immagino che si possa dire: beh, i versi sono versi e quelle strofe ineluttabilmente guardano il lettore, non c’è alcun dubbio. 
E come tale, il sonetto assume valore distintivo. 
Eppure, chi è disposto a negare che il valore letterario ed artistico di quelle pennellate di primari colori forti, risieda nella collocazione che il poeta sceglie per loro, sulla fitta tela semantico-sintattica del testo? 
Se si considera che un’opera figurativa è solo la sintesi potentissima di quanto un testo letterario può espandere in numerose direzioni, si può immaginare quanto la natura reale del dualismo monologico-dialogico sia sempre ambigua. 
Fortunatamente. 
Ed è così che l’apparente paradosso viene a risoluzione.
Dante stesso fa la parafrasi al suo sonetto, una parafasi che gareggia in chiarezza con i versi. 
Come comprendere la ragione di questa parafrasi laddove: 
«Questo sonetto è sì piano ad intendere…» come afferma lo stesso autore nel riprendere il filo del discorso prosastico? 
La spiegazione risiede nella necessità dell’autore di presentare il narratore come distaccato, onnipotente, dotato di un sapere superiore al personaggio “se stesso” che compare in forma lirica. 
Ergo, pensandoci bene, debbo astenermi dal farne la parafrasi. 
Ho la sensazione che compirei un atto di supponenza al solo apprestarmi a una forma di ripetizione in lingua corrente del sonetto.
Anzi, debbo rilevare che la parafrasi che avevo in mente non avrebbe il medesimo significato che ne fornisce Dante nel testo della “Vita Nova” che ripropongo in queste pagine da muto testimone, quasi che io fossi pari a quegli “altrui” la cui lingua trema al suo passaggio e non ardiscono di alzare gli occhi per salutarla: 
«… quando ella fosse presso d’alcuno, tanta onestade giungea nel cuore di quello, che non ardia di levare li occhi, né di rispondere a lo suo saluto; e di questo molti, sì come esperti, mi potrebbero testimoniare a chi non lo credesse. Ella coronata e vestita d’umilitade s’andava, nulla gloria mostrando di ciò ch’ella vedea e udia. Diceano molti, poi che passata era: “Questa non è femmina, anzi è uno de li bellissimi angeli del cielo”. E altri diceano: “Questa è una maraviglia; che benedetto sia lo Segnore, che sì mirabilemente sae adoperare!”. Io dico ch’ella si mostrava sì gentile e sì piena di tutti li piaceri, che quelli che la miravano comprendeano in loro una dolcezza onesta e soave, tanto che ridìcere non lo sapeano; né alcuno era lo quale potesse mirare lei, che nel principio nol convenisse sospirare.» (Vita Nova, XXVI).
Mi limito invece a considerare qualche aspetto di retorica che colpisce nella lettura. 
La «e» ripetuta, per esempio, che scandisce un ritmo di cadenze auliche prive di maniera e corpose di meraviglia. 
Il «che» dichiarativo dei valori sintattici del testo. 
Le inarcature o enjambements tra i versi 1 e 2, 7 e 8, 12 e 13: un limite metrico che segna incomparabilmente non solo il ritmo ma la natura stessa del poetare. 
Le allitterazioni tra i versi 1 e 2, 8 e 9, che rendono la lettura simile all’apparizione di un colonnato isometrico. 
E le figure retoriche fanno da cornice, da accompagnamento ritmico a quel “sospira” finale che raccoglie l’intero sonetto in una parola sola.
Lo ammetto: sono rimasto abbacinato, al punto che leggo e rileggo i versi senza sosta ed è come se volessi imprimerli non nella memoria, ma nell’anima. 
E’ quasi un tormento: come se credessi che, davvero, quelle parole potessero elevare anche me nel sospiro ad Amore
E sono le stesse parole di Dante che precedono il sonetto a fare da ali a questa stranissima, inusitata sensazione: 
«...però che grande vergogna sarebbe a colui che rimasse cose sotto vesta di figura o di colore rettorico, e poscia, domandato, non sapesse denudare le sue parole da cotale vesta, in guisa che avessero verace intendimento.»
E poi procede con un riferimento a Guido Cavalcanti e alla polemica accesissima contro Guittone: 
«E questo mio primo amico ed io ne sapemo bene di quelli che così rimano stoltamente.» (Vita Nova, XXV).
Si, leggo e rileggo e mi sembra che versi così carichi di limpido sentimento non potrebbero essere scritti senza l'armonia di una voce interna.
E’ questo, ora lo comprendo fino in fondo, che fa di Dante un fenomeno letterario così unico da essere inimitabile (forse solo Cavalcanti suscita in me sensazioni simili): la saldatura tra forma e significato, tra struttura e sentimento, la loro ineguagliabile corrispondenza come di suono che si condensa al fenomeno naturale che lo esprime.
Ne sono talmente preso che non ammetto di terminare questo striminzito scritto con le mie parole ma proprio con le sue, incredibile oracolo dei miei sentimenti:
«Queste e più mirabili cose da lei procedeano virtuosamente: onde io pensando a ciò, volendo ripigliare lo stilo de la sua loda, propuosi di dicere parole, ne le quali io dessi ad intendere de le sue mirabili ed eccellenti operazioni; acciò che non pur coloro che la poteano sensibilmente vedere, ma li altri sappiano di lei quello che le parole ne possono fare intendere. Allora dissi questo sonetto…» (Vita Nova, XXVI).

Già, 700 anni fa, Dante Alighieri disse questo sonetto.

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