La parola ci distingue da ogni altro essere vivente, ma non è uno strumento che ci appartiene.
Il linguaggio ci abita.
Con le sue immagini.
Con i suoi pensieri.
Siamo noi ad appartenere alle sue radici, alla sua origine.
Che ci sfugge.
Fintanto che il mistero rimarrà inviolato, teniamo cura alla parola.
Con intelligenza.
Con precisione.
Come l'artigiano che rivela l'oggetto nascosto nella materia.
Quando penso a mio padre lo immagino nel suo mondo: la politica, la città, gli amici, l'orgoglio del fare, una lunga e irripetibile stagione che si dipana dal secondo dopoguerra fino all'ultimo decennio del XX secolo. Nella provincia meridionale italiana, a Catanzaro, in quella che fu una delle tante culle di un'utopia di idee e di pensieri rivolti allo sviluppo. Prima che tutto precipitasse nell'anonimato di piccole figure e degenerasse nella crisi cupa del cinismo che attanaglia la nazione e le sue propaggini locali.
Era un uomo insolito Vincenzino Menniti: istrionico, imprevedibile, burbero, meravigliosamente insolente, teatrale, dotato di innato talento per il turpiloquio condotto con stile impeccabilmente diretto.
Di certo, con lui non ci annoiava, mai.
E dietro quella maschera si schermiva l'animo di un uomo profondamente buono, sensibile al disagio degli altri, sempre in prima linea sul fronte della complessa amministrazione di una città del Meridione d'Italia, Catanzaro.
Capoluogo di regione nel quale si era esercitata la migliore cultura borghese del '900, irrorata positivamente nel secondo dopoguerra dagli innesti di figure mirabili provenienti dall'ambito provinciale.
Per citarne uno tra i molti, Ernesto Pucci, alla cui fonte di valori aveva attinto primariamente il giovane Vincenzino che proveniva da Guardavalle.
E con Pucci, Aldo Ferrara, Francesco Bova e molti altri.
Poi arrivarono: Elio Tiriolo, Antonino Murmura, anche Ciccio Pucci che fu sindaco della città, Carmelo Pujia, Angelo Donato, Vito Napoli.
E ancora dopo, Sergio Scarpino, Agazio Loiero, Mario Tassone, Donato Veraldi. Una generazione di "cavalli di razza", quella della Democrazia Cristiana catanzarese.
Assieme a questi, i tanti che militarono nel partito dei cattolici in quel periodo a cavallo tra la fine degli anni '50 ed i primi '60, quando il miracolo della ricostruzione della Calabria passava anche dalla bonifica di vaste aree paludose, quando i fondi della Cassa del Mezzogiorno venivano impiegati con giudizio e competenza, quando le città scoprivano l'importanza dei piani regolatori per il loro ordinato sviluppo e quando, infine, la politica aveva chiari innanzi a sé gli obiettivi: sviluppo, benessere collettivo, lavoro, responsabilità.
A questo proposito, mi sembra significativo fare un cenno alle origini di quell'entusiasmo politico, citando da "Cesare Mulè, Democrazia Cristiana in Calabria (1943 - 1949), edizioni Cinque Lune, Roma, 1975", un brano nel quale Gennaro Cassiani (figura eminente della DC di quegli anni, in seguito deputato, senatore e più volte sottosegretario e ministro) rievoca il viaggio di Alcide De Gasperi in Calabria nel novembre 1949, cui segue il commento dello stesso autore, Cesare Mulè:
[...] «All'inizio si sentì quasi smarrito. Gli è che la riforma frantumava il latifondo terriero e perciò il feudalesimo politico. Si realizzava un vero fatto rivoluzionario per l'ingresso nella vita della nazione dei ceti rurali... De Gasperi avvertiva che la riforma veniva incontro alle attese secolari dei lavoratori dei campi. In mezzo ai contadini dell'altipiano della Sila De Gasperi mi apparve, più di sempre, nella sua figura di montanaro, immobile, quasi legnoso, egli che aveva una fiamma perenne che gli ardeva dentro.» Le dichiarazioni di De Gasperi non erano fatte per turbare i borghesi o per soddisfare le orecchie del popolo. La riforma agraria (come la Cassa per il Mezzogiorno) si sarebbe effettivamente fatta: il Presidente era un politico diverso dalle "pagliette" e per questo strano assai: manteneva gl'impegni assunti. [...]
E ancora, dallo stesso testo, lo stralcio delle battute finali di uno dei discorsi di De Gasperi durante quella visita in Calabria:
[...] «La democrazia non è tale soltanto perchè vi è un parlamento, perchè vi è una libertà di stampa, perchè vi è una libertà di critica. La sola vera democrazia è quella fondata sulla giustizia sociale, sulla consapevolezza, da parte di ognuno, dei propri doveri.» Come annotò Cassiani, le popolazioni calabresi sentirono l'urgenza e la serietà delle affermazioni di De Gasperi e con lui corrisposero nel profondo mostrando un parallelo di convincimenti e di speranze. [...]
Certo, nel tempo la declinazione di questi concetti ha subito ampie distorsioni.
Ma Vincenzino Menniti da quella scuola non si è mai allontanato: erano per lui rudimenti di base, imprescindibili.
La sua onestà era ed è rimasta proverbiale.
Eppure, la coniugava, efficacemente, con l'interesse generale, spesso sfidando, in nome di questo fine superiore, le ottuse convenzioni burocratiche. Dimostrando sul campo che la relazione virtuosa tra integrità morale e fattiva operosità è possibile.
Non fu solo, ha vissuto nel valore dell'amicizia: ne rammento tanti.
Molti sono scomparsi.
Tra quelli che sovvengono alla memoria, alla rinfusa, per consuetudine, per affetto, voglio ricordare Medoro Lapenna, Natalino Bianco, Elio Canino, Ercole Amelio, Federico Ferrara, Claudio Ricca, Mario Celestino, Piero Carnuccio, Alfonso Muleo, Totò Lagonia, Ernesto Gigliotti, Gigino Mazzacua, Cesare Mulè, Marcello Furriolo, Guido Saracco, Ciccio Mirante, Rosario Militano, Fausto Bisantis, Franco Fiorita.
Il ricordo di Franco Fiorita suggerisce una breve digressione.
Quest'ultimo, da segretario provinciale del partito (peraltro ricoprì 10 anni dopo, nel corso del 1993, anche la carica di sindaco) pur provenendo dalla "corrente" di maggioranza che aveva posto in subordine la vecchia generazione nelle file della quale era rimasto anche Vincenzino Menniti, non ebbe mai dubbi a riconoscerne il valore umano e politico, le sue virtù di amministratore intenso.
Così, nel 1983, in un momento difficile per la credibilità delle forze politiche, a seguito di una di quelle poi divenute ricorrenti questioni locali di cattivo uso del denaro e del potere pubblico, fu proprio a Vincenzino Menniti che Fiorita, a nome della Democrazia Cristiana, affidò (non è mai più accaduto da allora) le sorti dei due assessorati "bollenti" in municipio, finiti nella tempesta mediatica: quello dei Lavori Pubblici e quello dell'Urbanistica.
Anche le altre forze politiche di maggioranza furono d'accordo.
E dall'opposizione, in grande fermento, giunsero voci, mai smentite, di stima per la la scelta.
Metodo?
Porte aperte, trasparenza assoluta, un teatro permanente durante il quale ogni decisione era assunta alla luce del sole.
Il suo vecchio, stimato e acutissimo docente del liceo, il rimpianto professor Nicotra, all'epoca in pensione, quasi ogni mattina faceva una salutare passeggiata fino al palazzo comunale.
Entrava silenzioso nella stanza del neo assessore.
Si accomodava sul divanetto di fronte alla scrivania dell'ampia stanza.
Così, da spettatore appassionato, assisteva in prima fila alle sceneggiate quotidiane di Vincenzino, arricchite da un gergo a dir poco colorito, divertendosi alle sue sfuriate contro la lentezza burocratica, i distinguo degli azzeccagarbugli, la mancanza di coraggio e di iniziativa di qualche funzionario o dirigente troppo prudenti e incerti nelle carte.
Carte che finiva per strappare, platealmente.
Tutto doveva correre veloce e bene: via fronzoli, solo solidità e chiarezza.
Coloro che stavano dalla sua parte in quel frangente straordinario, capirono l'importanza dell'occasione per la città: tra questi ricordo l'ingegnere Belmonte, dirigente di viva intelligenza, competenza, visione. E il geometra Antonio Gallo che gli fu sempre vicino, integerrimo, rigoroso al punto da essersi meritato l'affettuoso appellativo di "Totò u malu".
La sua pulizia morale, la visione etica e la ricerca di efficacia materiale, il lavoro frenetico di una sorta di "folletto" scatenato che scassava i telefoni quando trovava la linea occupata, fecero recuperare la credibilità momentaneamente compromessa: fu un successo.
Per la Democrazia Cristiana catanzarese.
Per coloro che nel partito, unanimemente, avevano caldeggiato quella designazione "super partes" appoggiando la proposta di Fiorita.
E per lui.
Che alle successive elezioni venne rieletto con il semplice passaparola, raccogliendo una buona messe di voti e senza spendere nemmeno un centesimo in propaganda.
Chiusa digressione.
Ritorno ad altri nomi.
Tra le nuove leve, rammentando quelle più vicine alla mia generazione, c'è Franco Cimino, il più cospicuo tra i segretari provinciali del partito, oggi l'opinion maker più autorevole della città, voce autentica e imprescindibile di Catanzaro.
E ancora, Grazioso Manno, Vito Bordino, Alfonso Riccio e poi Tonino Sorrentino, storico segretario della CISL.
Sfuggono in molti a queste sequenze veloci di volti: me ne scuso sentitamente.
Nomi che risuonavano in mille telefonate o nelle parole di mia madre che riportava i messaggi, quando c'era ancora il telefono con il filo e la ghiera rotonda collocato all'ingresso di casa.
In quei frangenti comincia la traccia del suo cursus honorum, prima come consigliere comunale e poi, negli anni '70 e '80, più volte, come assessore in settori delicati dell'amministrazione comunale catanzarese.
Fu allora che s'attestò in una personale battaglia contro la mala-pianta della burocrazia.
Intuì che dietro i codicilli si annidava la malversazione, l'impedimento al fare concreto che talvolta bloccava la politica e la città in una stasi melmosa.
Lì c'erano poche chiacchiere: per lui la politica doveva essere atto di coraggio, percorso obbligato sulla strada dell'interesse collettivo.
E per coloro che si fossero posti di traverso, la sua risposta era fatta d'improperi irripetibili, litigi ad altissima densità di decibel, scenate plateali.
Ne fece cenno lui stesso, anni dopo, in una traccia lasciata a Gerardo Gambardella e Gabriella Gualtieri per un loro interessantissimo libro su Catanzaro, "Luci e ombre nel palazzo, 50 ani di vita amministrativa".
La riporto integralmente dopo la premessa dei due autori:
"In quello esecutivo entrò a far parte anche Vincenzino Menniti, dopo un discreto tirocinio tra gli scranni del Consiglio comunale. Difatti, eletto nel '75, solo nel '77 gli venne conferito il primo incarico. Conoscendone il carattere, non gli fu facile gestire assieme agli Affari Generali anche il Personale. Comunque, approfittando del fatto che in quel periodo era entrato in vigore il decreto Stammati (che consentiva all'Amministrazione di formulare un piano che avrebbe dovuto prevedere la ristrutturazione dei servizi, con annessa la nuova pianta organica), Menniti si preoccupò subito di ottenere dal competente ministero l'autorizzazione a dar corso all'attuazione del decreto. Partiamo proprio da questa novità che consentì a Menniti di organizzare i servizi, utilizzando anche la nuova pianta organica."
Ed ecco le sue parole:
"Anche se il decreto Stammati figurava annunciato da un bel pezzo, in pratica, le Amministrazioni comunali, senza l'autorizzazione del competente ministero, non avrebbero potuto muovere foglia. Non appena, anche a seguito di sollecitazioni, ottenemmo l'autorizzazione ad applicarlo fu anche possibile procedere a delle nuove assunzioni.
L'organico, difatti, registrò un aumento di oltre 150 unità, tant'è che da 960, i dipendenti del Comune passarono a 1115.
Fu proprio l'innesto di questo nuovo personale a consentire all'amministrazione di immettere in ruolo anche quanti lavoravano come precari.
Contemporaneamente vennero banditi anche altri concorsi per l'assunzione di 114 unità, successivamente inseriti nell'Amministrazione con vari compiti. da premettere che il 50 per cento dei posti a concorso venne riservato ai giovani disoccupati. A seguito della legge 295 venne ancora assunto altro personale. Quindi, in quel periodo, l'Amministrazione, oltre a rafforzare il personale ebbe anche la possibilità di procedere alla organizzazione razionale dei servizi."
In quest'accenno finale emerge molto del modo di pensare di "Vincenzino".
Ma riprendo il filo, sempre con la sua voce.
"Quando nella successiva Giunta (dal dicembre dell'83 all'ottobre dell'85) mi venne affidato l'incarico di assessore ai Lavori Pubblici ed all'Urbanistica, nonostante le notevoli difficoltà che incontrai (in quanto fui costretto ad operare in una città ancora priva di uno strumento urbanistico) riuscii ugualmente a gestire entrambi i delicati settori della vita amministrativa della città, con impegno ed anche raccogliendo qualche discreto risultato. Inizialmente mi preoccupai, sempre d'intesa con l'amministrazione, di nominare una Commissione per la redazione del piano regolatore generale. Nella prima fase si sarebbe dovuto tener conto del Piano Marconi. Il motivo di pervenire al più presto alla redazione della variante venne individuato nella necessità di evitare una ulteriore paralisi nel settore dei Lavori Pubblici. Ecco perchè l'Amministrazione faceva affidamento sulla variante Spagnesi, per predisporre una nuova strategia urbanistica. Fu, pertanto, l'intero Consiglio comunale che consentì all'Amministrazione di uscir fuori dalla precedente situazione. Anche se continuava a mancare, come punto di riferimento, uno strumento urbanistico approvato (a parte il piano Marconi) riuscimmo ugualmente a programmare e al tempo stesso a progettare alcune opere. Mi preoccupai di verificare l'esistente per migliorare l'erogazione dell'acqua sia in città che negli altri quartieri. Occorreva recuperare delle nuove sorgenti. Ci preoccupammo di ottenere dalla Cassa per il Mezzogiorno un finanziamento di circa 7 miliardi di vecchie lire che venne subito utilizzato per l'acquedotto del Guerriccio e consentire perciò l'approvvigionamento idrico nella parte alta della città. venne, in tal modo, garantita l'erogazione dell'acqua 24 ore su 24 agli ospedali, alle cliniche private ed ai Vigili del Fuoco. Vennero anche potenziate tutte le reti idriche dei quartieri. Con un successivo finanziamento, ottenuto dalla Cassa Depositi e Prestiti, provvedemmo a ripristinare l'acquedotto Pisarello-Santa Maria, quello del colle Castagna, del Celso e di Cutura. All'Amministrazione si presentò anche il problema della sistemazione della rete fognaria.
Si cominciò con il collettore della fognatura S. Elia-Janò; successivamente con la realizzazione dell'impianto di sollevamento liquami nel quartiere Lido; venne anche rifatta la rete fognaria di Siano-Cava-Sant'Anna; quella di contrada Mosca e quella di Materdomini-Cavita. L'Amministrazione si preoccupò anche della realizzazione delle opere di urbanizzazione nelle zone che continuavano ad essere prive di un decente assetto stradale.
Anche questa volta fu costretta a ricorrere alla Cassa Depositi e Prestiti per ottenere la concessione di un mutuo per affrontare tale situazione.
Si cominciò con il piano di zona dell'Aranceto e quello del Corvo utilizzando (per la realizzazione di tali opere) circa 7 miliardi di vecchie lire.
Successivamente vennero urbanizzate tutte le altre aree (da Cava a Germaneto, da Pistoia alla Fortuna sino a Casciolino) per un importo di 15 miliardi di vecchie lire. Per ultimo la zona di viale Isonzo che era in una fase di notevole espansione... .
L'Amministrazione oltre a programmare finanziò anche alcune opere di consolidamento dell'abitato. Intanto lo sviluppo della città verso il sud, sia pure in maniera disordinata, fece il suo corso.
Nella rete dei lavori pubblici figurava anche l'edilizia scolastica.
Vennero costruite diverse scuole sia nei vari rioni che nei quartieri.
Anche per la realizzazione di tale programma l'Amministrazione ricorse ai mutui per circa sei miliardi di vecchie lire.
In quegli anni era anche carente l'illuminazione pubblica.
Anche questo problema venne affrontato con un altro mutuo di quattro miliardi e mezzo.
Per la realizzazione delle opere pubbliche in quel periodo vennero aperti ben 23 cantieri.
Anche quel periodo fu molto difficile per la vita amministrativa di una città che si estendeva disordinatamente, aggravando i problemi del settore lavori pubblici.
Comunque, lasciai il Palazzo con la soddisfazione di aver contribuito all'impostazione dei servizi comunali; di aver utilizzato il decreto Stammati, per inserire nel circuito impiegatizio alcune centinaia di unità, di essermi impegnato a risolvere diversi problemi che riguardavano anche l'assetto del territorio."
Sono parole asciutte, prive di retorica, rivolte alla concretezza dei fatti: esprimono il significato antico di pensare la buona amministrazione, la buona politica, il senso della comunità, della "pòlis", del vivere solidale.
Senza personalizzare le vicende: così, una volta, si stava nei partiti e soprattutto nelle istituzioni.
In quei valori credeva.
E quei valori lo hanno sempre sorretto.
Vincenzino metteva in campo tutta la sua carica vitale per costringere l'interlocutore ad ammettere la verità delle cose, fosse costui un semplice collega di Giunta, un altro consigliere comunale, un leader di partito, un alto dirigente dello Stato o un ministro.
Erano atti d'amore per Catanzaro, la città che l'aveva accolto.
Per essa, indossò sempre la maschera del mattatore. Già, quella sua maschera di uomo diretto, sorretto da onestà d'intenti e di prassi, divenne marca indelebile della sua figura di politico, immagine originalissima ed estrema.
Sulle questioni importanti, come nel caso delle opere pubbliche, marciava senza tentennamenti: da una parte c'era la verifica puntuale del processo di realizzazione - divenne il terrore delle imprese per le continue verifiche sulla congruità esecutiva dei lavori - e la conduzione a termine delle opere nei tempi previsti.
Dall'altra, tutto il resto.
E tutto il resto, a lui, non interessava.
Per questa ragione era apprezzato anche dai leader cittadini dell'opposizione.
Che divennero grandi amici: Ninì Dardano, Pino Casale, Michele Traversa. Gli bastava che le persone capissero il suo impegno e lo gratificassero della loro stima.
Come in occasione della storica visita di Papa Wojtyla a Catanzaro il 5 di ottobre del 1984.
Si temevano attentati, la sicurezza del Papa era un tema sentitissimo, in Prefettura non si riusciva a decidere quale percorso fosse meno irto di pericoli, mentre in Comune si riteneva preminente fare attraversare al Pontefice la città.
Si rimase, a lungo, in una situazione di stallo.
Così, Vincenzino, animato da una spregiudicata missione di "fede" che lo faceva sentire invulnerabile, nottetempo impose agli operai del Comune - che lo adoravano per la sua spontaneità - di sigillare tutti i tombini dalla zona nord fino al centro storico, i possibili covi che puntellavano il percorso ritenuto, per quella ragione, impraticabile.
Il Prefetto, in mattinata, allarmato dalla notizia, lo convocò per chiedergli spiegazioni: «Ma, assessore Menniti, se qualcuno è rimasto lì sotto?»
La risposta di Vincenzino fu irripetibile e arrivò netta.
Nel suo stile.
Ogni obiezione svanì.
Il Papa venne informato del singolare episodio direttamente dall'arcivescovo di Catanzaro, Monsignor Antonio Cantisani: questi raccontava che la reazione del Pontefice fosse stata disegnata in un eloquente sorriso.
Così, Wojtyla mostrò di apprezzare e in occasione dei saluti di rito alle autorità cittadine, volle ringraziare direttamente il coraggioso amministratore locale, soffermandosi in un'affettuosa stretta di mano e qualche parola in più.
Nella scomparsa di Vincenzino "il mattatore", lo stesso Cantisani, saggio e amato presule della città, si ricordò ancora di quei momenti, lasciandone segno in un affettuoso messaggio di condoglianze.
Ecco.
La politica come passione brulicante d'umanità: questo il sentimento che si è sempre portato in serbo. Ha vissuto in simbiosi con il suo mondo, un'idea dinamica e progressiva della cosa pubblica, esigendo risultati, soprattutto da se stesso.
Ogni giorno era come un esame: sempre teso e pronto ad accendersi come un cerino, molti all'inizio non capivano i tratti più rudi del suo carattere.
Poi, seguendolo, intuivano la sua passione per la bellezza del fare e la sua astinenza dai tatticismi più retrivi della politica.
Coltivò in questo solco i rapporti umani, mai debordando, conquistando amicizie senza tempo, tra le risate di una goliardica visione della vita e la stima per la sua pulizia morale, l'intelligenza dell'amministratore coraggioso e la bontà d'animo che ne fecero un generoso.
Non seppe reggere alla scomparsa di sua moglie, mia madre.
Qualche anno fa.
Così, poco dopo, anche lui se n'è andato, con la modestia materiale che lo ha distinto, lasciando il rimpianto per uno spirito combattivo e intimamente fragile.