IL GRANDE INGENUO E I PAROLAI DEL NUOVO SECOLO
«Quando leggiamo “ministro senza portafoglio”, ci viene sempre un dubbio. Che glielo abbia rubato qualche collega?»
- Indro Montanelli, Controcorrente del 4 dicembre 1982.
Il 22 aprile del 1909 nasceva Indro Montanelli. Maestro d'indipendenza e di coraggio civile, ha avuto un solo padrone: il lettore. Lo ha rispettato senza mai adularlo. Nell’unico modo possibile: facendo uso di quella sintassi fluida, comprensibile e lineare dettata dalla sincerità di pensiero. Nemico giurato dell’accademismo e dell’ipocrisia salottiera. Scrisse, tra le innumerevoli cose, una monumentale "Storia d'Italia", facendo perno su un linguaggio agevole e diretto. Per farsi capire e per far capire anche al lettore sprovveduto. Testimone ironico, rigoroso e disincantato di un ‘900 vissuto intensamente. Appassionato italiano, ha raccontato il Paese con la disperata coscienza di un innamorato deluso. Eppure, con lo sguardo ardente d’infatuata speranza per un popolo senza memoria. Sempre in buona fede e sempre "stecca nel coro" per vocazione professionale: è l'etica più profonda e difficile del giornalista. Lo sapeva. Ed ebbe a dire: «La mia eredità? Sono io». Aveva ragione. Basti considerare il teatrino infame di questi giorni su un avvenimento così rilevante come la guerra in Ucraina. Sulla quale si fa speculazione parolaia priva di sensibilità verso uno scenario molto complesso.
Indro Montanelli è ormai una figura storica.Nel senso che appartiene al passato di questo Paese.
Significa osservare questa figura con lo sguardo e la ponderazione degli storici.
Fino a tenere conto della distanza culturale che separa il XX dal XXI secolo: una distanza immensamente più vasta di quella solo temporale.
Eppure, si tratta di una figura capace ancora di suscitare sentimenti contrastanti: la sua vita, lunga e ricca di avvenimenti, vissuti a viso aperto e nell'ottica di una disincantata sincerità di parola e d'intenti, ha trovato e trova tutt'ora ammiratori e detrattori.
Una buona parte animati da buona fede.
Una piccola parte immiseriti da cattiva fede e fanatismo.
È stato un uomo dell’altro secolo, immerso intensamente nel ‘900.
Ed è proprio in questa direzione che vorrei fare memoria della sua figura.
È stato un uomo dell’altro secolo, immerso intensamente nel ‘900.
Con tutte le ambiguità e le contraddizioni estreme di quel secolo tumultuoso.
Ma lo fu con l’onestà di un uomo che seppe prendere atto di quelle contraddizioni, senza nascondersi dietro il paravento dell’ipocrisia.
Ebbe sempre ragione?
Ma no, certo che no.
Volle avere sempre ragione?
Ma quando mai.
Ma lo fu con l’onestà di un uomo che seppe prendere atto di quelle contraddizioni, senza nascondersi dietro il paravento dell’ipocrisia.
Tra le sue fragilità, un'antica forma di depressione che lo costringeva a lunghi momenti d'isolamento.
Il male di vivere che si sconta vivendo.
Scomparve nel 2001, il 22 del mese di luglio.
Un passo fuori dal "suo" tempo.
Ricordava una frase di Sainte-Beuve:
Il male di vivere che si sconta vivendo.
Scomparve nel 2001, il 22 del mese di luglio.
Un passo fuori dal "suo" tempo.
Ricordava una frase di Sainte-Beuve:
«Resta giudizioso e chiaroveggente fin nelle tue debolezze e, se non dirai tutto il vero, non dire mai il falso. Che la stanchezza non ti prenda mai, non ritenere mai di essere arrivato. Nell'età in cui gli altri riposano o rallentano, raddoppia di coraggio e di ardore; ricomincia come un principiante, corri una seconda e una terza corsa, fa’ che la verità stessa si avvantaggi della perdita delle tue illusioni.»
Aggiungendo di suo:
«Non so se ci sono riuscito, nel bene o nel male ho sempre tentato di vivere così».Oggi c'è chi ne giudica la visione politica, che fu quella di un conservatore liberale.
E non altro oltre questo: per chi abbia un po' di sale in zucca.
Poichè la statura morale e professionale, il senso etico applicato alla visione politica, non sono discutibili.
Coltivò l’idea di una borghesia che mai germogliò nel nostro Paese, una borghesia di stampo europeo, così come vagheggiata da quel genio anarchico di Leo Longanesi che ironicamente scrisse:
«Nulla si difende con così tanto calore quanto quelle idee a cui non si crede.»In questa scia, fu uomo di tormenti vissuti con il senso della dignità, anticonformista per intima vocazione a distinguersi dalle masse consenzienti e fintamente compatte dei benpensanti.
Montanelli scrisse a proposito della borghesia italiana:
«È la solita bruciante delusione, questa nostra borghesia. Non cambia mai, è sempre la stessa: la più vile di tutto l’Occidente. Gente portata a correr dietro a chi alza la voce, a chi minaccia, al primo manganello che passa per la strada. Questo sono i nostri borghesi: tutti fascisti sotto il fascismo, poi tutti antifascisti fin dall’indomani.»
Stecca nel coro, dunque: ma non per spirito di protagonismo.
Piuttosto, per l'innata curiosità di capire. E la conseguente urgenza di dire e di scrivere sulla raggiunta consapevolezza.
Regalando ai lettori il risultato di una coscienza limpida.
Ebbe sempre ragione?
Ma no, certo che no.
Volle avere sempre ragione?
Ma quando mai.
Anzi, da galantuomo qual'è stato, seppe riconoscere e ammettere, quando se ne avvide, di avere avuto torto, anche nelle polemiche più aspre: contava la verità e non la contesa.
E disse:
«Io non ho nessuna difficoltà ad ammettere di essermi sbagliato perché sono convinto che l’infallibilità sia un’esclusività di Dio e degli imbecilli.»
Commise errori?
Tanti.
Ma non quello di essere un voltagabbana per convenienza.
Tanti.
Ma non quello di essere un voltagabbana per convenienza.
Tutt'altro.
Fu antifascista quando conveniva non esserlo. E per questo subì l'esilio e la prigione e rischiò a lungo il plotone d'esecuzione.
Sul fascismo disse:
«Io ho dei rancori verso il regime e il suo Duce.
Non per i guai che mi hanno procurato, sebbene piuttosto pesanti. Ma per lo sperpero che essi hanno fatto di quel patrimonio di speranze che io e tanti altri giovani della mia generazione ci avevamo investito.»
E ancora:
«Fascismo. Il più comico tentativo per instaurare la serietà.»
Si dichiarò di destra quando in Italia questa parola venne quasi bandita.
Reagì al moralismo e al conformismo di sinistra quando una pavida e ambigua borghesia blandiva e accarezzava il delirio terrorista, sfidandolo: per questo si prese alcune pallottole nelle gambe.
Celebre una sua battuta:
«Come dissi scherzando a Nilde Iotti quando venne a trovarmi al Giornale, tenevo una vecchia icona di Stalin perché è il comunista che ammiro di più: quello che ha fatto fuori più comunisti.»
Mentre l'Italia inneggiava a Berlusconi, il suo editore pronto a gettagli ponti d'oro, abbandonò "Il Giornale" che aveva fondato e fu costretto, a lungo, a sopportare insulti e calunnie da facinorosi di una destra becera, pasticciona, approssimativa e immemore.
Disse:
«Io continuo a professarmi uomo di destra: ma la mia destra non ha niente a che fare con quella 'patacca' di destra che ci governa.»
Come un "grande ingenuo", scelse la verità: dire e scrivere quel che realmente pensava, sempre in buona fede.
In un secolo che elevò oltre ogni limite la propaganda e la retorica, non fu cosa da poco.
Scrisse:
«Noi, di fascismi ne conosciamo e ne esecriamo uno solo: quello di chi appiccica questa etichetta a qualunque idea o opinione che non corrisponde alle sue. Di questo giuoco, la nostra sinistra è spesso maestra. Non per nulla lo stesso Mussolini veniva dai suoi ranghi.»
Non fu semplice per lui.
E non lo è, oggi, per noi che volgiamo indietro lo sguardo.
Montanelli era immerso in una temperie culturale che noi contemporanei giudichiamo con difficoltà, lontani anni luce da paradigmi sociali e culturali che provenivano dal vicino ‘800 e in continuità con quel secolo che vide, nella sua seconda metà, cambiamenti epocali nella temperie dell’industrializzazione e di un conseguente nuovo urbanesimo.
Giudicare la storia col senno di poi, con le categorie culturali, morali ed etiche del contemporaneo e, peggio per chi lo pratica, secondo un modello d’indottrinamento politico, è dunque una scelta priva di senno, un arbitrario, banale tradimento di un metodo d’analisi appropriato.
In quel secolo di errori e di orrori, Indro Montanelli è stato un esempio di autenticità, cattiva o buona che fosse: ha insegnato che il giornalismo, qualora scavi a fondo, imponga di subire la solitudine e l’emarginazione sociale, proprio a causa di quella borghesia imbelle e ipocrita che ha sempre preferito gettare il sasso e nascondersi.
A questo proposito, un suo ricordato aforisma:
«L'unico consiglio che mi sento di dare - e che regolarmente do - ai giovani è questo: combattete per quello in cui credete. Perderete, come le ho perse io, tutte le battaglie. Ma solo una potrete vincerne. Quella che s'ingaggia ogni mattina, davanti allo specchio. Se vi ci potete guardare senza arrossire, contentatevi.»
Come dargli torto.
Che lo si voglia o meno, Montanelli è rimasto un narratore dotato di intelligenza imparziale: le sue cronache di guerra, come quelle dalla Finlandia negli anni ’39 e ‘40 e soprattutto le sue corrispondenze dall’Est, dall’Ungheria nel ’56, hanno fatto epoca.
All'estero, però.
Mi sovviene un'altra delle sue battute:
«Il bordello è l’unica istituzione italiana dove la competenza è premiata e il merito riconosciuto.»
Per la Finlandia si guadagnò l'odio dei fascisti.
Mentre, per il racconto dei fatti d'Ungheria, quello dei comunisti.
Ma anche quello dei liberali che volevano far credere a una rivoluzione fatta nel segno del modello occidentale, come peraltro conveniva affermare, appunto, anche da parte dei comunisti ortodossi.
Ancora una volta, il grande ingenuo si trovò circondato da due fuochi.
Perché raccontava, da cronista acuto, quel che vedeva e intuiva: una rivoluzione nata in seno alla classe dirigente comunista ungherese la quale, in linea con le attese delle masse giovanili e della generazione dei loro padri, solidali, tentava, dal suo interno, la riforma dettata dalla coraggiosa denuncia dei crimini stalinisti pronunciata da Nikita Chruščëv durante il XX congresso del Pcus nel febbraio del 1956.
Questo è quello che Montanelli narrò ai suoi lettori: aveva ragione, come gli storici dimostrarono.
La verità, per lui, doveva prendere tutto lo spazio necessario e ricacciare, spazzare via, la convenienza di una retorica ipocrita.
Con realismo, celebrò quest'idea in una frase:
«Non ho potuto sempre dire tutto quello che volevo, ma non ho mai scritto quello che non pensavo.»
Per questa ragione lo considero il "migliore tra i migliori" giornalisti italiani.
Ed è proprio in questa direzione che vorrei fare memoria della sua figura.
Ancora oggi capita che qualcuno ne faccia oggetto di attacchi indecorosi, strumentali, stupidi.
Non esprimo alcuna apologia acritica che sfiori temi politici o questioni di diritto.
Ma di certo, non scrivo e non scriverò mai, perché mai sono stato animato da pruderie ipocrite, puritane e moralistiche da accatto, di “questioni di letto”: la storia ne è piena e non ha risparmiato artisti, statisti e pontefici, industriali e alte figure istituzionali.
Uomini e donne.
Ma da lì, da quelle stanze segrete, ha regnato il silenzio.
Qualcuno è al corrente delle abitudini di Leonardo da Vinci o di Caravaggio e dei loro giovanissimi amanti?
Si può giudicare il valore di questi artisti secondo un'ottica da perpetue di sacrestia?
Diamine, un po' di decenza e di cervello, in questa lunga e stucchevole stagione di cialtroni da pulpito.
Ma di certo, non scrivo e non scriverò mai, perché mai sono stato animato da pruderie ipocrite, puritane e moralistiche da accatto, di “questioni di letto”: la storia ne è piena e non ha risparmiato artisti, statisti e pontefici, industriali e alte figure istituzionali.
Uomini e donne.
Ma da lì, da quelle stanze segrete, ha regnato il silenzio.
Qualcuno è al corrente delle abitudini di Leonardo da Vinci o di Caravaggio e dei loro giovanissimi amanti?
Si può giudicare il valore di questi artisti secondo un'ottica da perpetue di sacrestia?
Diamine, un po' di decenza e di cervello, in questa lunga e stucchevole stagione di cialtroni da pulpito.
Uomini e donne.
Il lettore si chiederà il motivo di questi cenni che suonano, evidentemente, polemici.
Mi riferisco all'accusa che sciocchi benpensanti sferrano ogni qualvolta si ricorda, appunto, la figura di Montanelli, per denigrarla, per ridurla, per offenderla ben oltre la miseria di certa banalità, dell'insopportabile "politically correct" che imperversa come totem di ogni squallida censura.
Soprattutto, come vessillo di menti prive di senso critico e di pagliacci facinorosi e infantili, gente da falsi principi, da caciara, da bar e da piazza fetida, ubriachi e drogati di moralismo da sussidiario putrefatto.
Qual'è il tema?
Eccolo.
Montanelli, rievocando i suoi ricordi in Abissinia, ha raccontato una vicenda di guerra.
Riportandola, correttamente, entro un contesto culturale e sociale.
Lo ha fatto, ingenuamente, con il suo consueto spirito di verità.
Montanelli, rievocando i suoi ricordi in Abissinia, ha raccontato una vicenda di guerra.
Riportandola, correttamente, entro un contesto culturale e sociale.
Lo ha fatto, ingenuamente, con il suo consueto spirito di verità.
Altri non lo hanno mai fatto.
Erano le sue idee.
Onestamente espresse.
Rimarranno per sempre le sue.
Non sono mai state le mie.
Non sono certo le mie.
Non saranno mai le mie.
Appartengono alla storia.
Per chi rimane, ma con qualche perplessità, valga questa ironica, sferzante citazione finale sul modus vivendi della retriva, ignorante borghesia italiana, tratta sempre dall’inarrivabile Leo Longanesi, altro "grande ingenuo":
Erano le sue idee.
Onestamente espresse.
Rimarranno per sempre le sue.
Non sono mai state le mie.
Non sono certo le mie.
Non saranno mai le mie.
Appartengono alla storia.
E per una volta, mi trovo d’accordo con Marco Travaglio.
Che ha vigorosamente difeso quelle ragioni.
Per quanto nessuno saprà mai cosa sia realmente successo tra le sabbie di quei deserti.
Per quanto nessuno saprà mai cosa sia realmente successo tra le sabbie di quei deserti.
E per quanto, intuendo facilmente la congerie culturale "machista", sarebbe stato impensabile che quel racconto potesse avere, in quell'epoca, un esito diverso da quello atteso: l'accusa sarebbe stata ancora più infamante.
Vitaliano Brancati, nel suo celebre "Don Giovanni in Sicilia", descrisse acutamente quella grottesca figura di "maschio" destinato, per cultura antropologica, a menare vanto di conquiste immaginarie, coniando un appellativo straordinario: "ingravidabalconi".
Se non si comprende quanto fosse radicata una certa mentalità nell'Italia provincialissima del secondo dopoguerra, è persino inutile parlarne.
Allo stesso modo, se non si comprende la profonda distanza tra i modelli antropologici occidentali e quelli radicati ad altre latitudini, si scantona in atteggiamenti da integralismo religioso, francamente intollerabili.
Lui, in buona fede, in quegli anni, ebbe il coraggio, da spietato cronista di se stesso, di raccontare una vicenda di guerra che altrimenti sarebbe rimasta sepolta.
Questo è il punto.
Solo per questo e non nella sostanza, merita considerazione.
Ridurre la figura di Montanelli a quell'episodio, per screditarlo, per trasformarlo impropriamente in un bruto, significa compiere un gesto, questo sì, generato da ignobili motivazioni.
Vale una frase dello stesso Montanelli:
«Conosco molti furfanti che non fanno i moralisti, ma non conosco nessun moralista che non sia un furfante.»
Così, in scia dell'esempio di Montanelli, non si deve accettare, mai, di essere contestati per un ragionamento che abbia fondatezza e dimensione storica.
Altrimenti, il fanatismo e la ghigliottina mediatica avranno il sopravvento.
E sono d'accordo anche con quest'altro aforisma che uscì dalla sua penna:
«Se c’è una caccia alle streghe, vado prima di tutto a sentire le ragioni delle streghe.»
Insomma, una critica è accettabile.
Ma senza riconoscere il coraggio della confessione pubblica, la dimensione del tempo, il contesto bellico e quello geografico, la tradizione culturale, ebbene, senza tutto questo, l'effetto è una detestabile idiozia per comari.
Qualcuno pensa a un caso isolato?
Insomma, quest'accapigliarsi su Montanelli è una questione originale?
Vogliamo scherzare?
L'Italia è il tempio mondiale dei parolai: da bar come da stadio, questo povero Paese è la prima vittima di un "sofismo" ben coltivato: tutto è risolto in una perenne, melmosa competizione dialettica che ha dato il bando alla ricerca dell'obiettività.
Le categorie sono due soltanto: amico-nemico.
Variamente adattabili e declinabili.
Accade oggi, ancora, per chi voglia ragionare sulla guerra in Ucraina: si prendono le parti, ci si accapiglia nei salotti televisivi per apparire buoni e giusti mentre il racconto veridico finisce per essere annacquato nella propaganda delle etichette.
Per cui, l'ingenuo che sia convinto di avere la possibilità di ragionare a viva voce, deve primariamente fare abiura di una presunta malafede e poi provare a dire qualcosa senza essere aggredito dai puritani del momento.
Lo sapeva bene anche Montanelli:
«Il sapere e la ragione parlano, l’ignoranza e il torto urlano.»
Chi oggi è disposto ad ammettere che il virus più resistente a ogni vaccino sia, nel mondo, il "nazionalismo"?
Nessuno.
Chi oggi è disposto ad ammettere, fino in fondo, che il mondo sia ancora appannaggio di potenze "imperialiste", da est a ovest?
Nessuno.
Men che meno i cosiddetti leader di governo o di partito.
Risultato?
Si naviga a vista sperando di ottenere più like possibili.
A questo si è ridotto il pensiero politico.
Vero è che se il mainstrem conformista è da nausea, quello anticonformista, adesso incarnato da Orsini, nuovo personaggio da talk show, mostra i tratti dell'analisi banale e della proposta delirante.
Basta ascoltarlo e si rimane basiti.
Per la pochezza delle argomentazioni.
Per il tono teatrale.
Per la retorica bolsa.
Per la vuota arroganza.
Dobbiamo sorbirci Orsini & C. mentre è escluso dalla discussione uno dei pochi che potrebbe farne un racconto serio e oggettivo come l'ambasciatore e storico Sergio Romano.
Per nostra fortuna si lasciano parlare Lucio Caracciolo e Dario Fabbri.
Forse perchè, nel loro dire, sono molto attenti a non prendere posizione limitandosi all'analisi strategica e tattica degli andamenti del conflitto.
Aggiungo: mentre comprendo bene cosa intendano i pacifisti che non vedrebbero male un'Ucraina rapidamente sconfitta, così da scongiurare il costante richiamo alla loro carità pelosa per i morti, non capisco la loro parallela riprovazione per gli Stati Uniti: si dimenticano che in questo mondo bipolare occorra scegliere tra due sfere d'influenza?
Hanno un'alternativa?
Credono che, in un'alleanza, si possa solo prendere dagli Stati Uniti e poi non dare nulla in cambio?
Viene in soccorso un'altra frase di Montanelli:
Un Paese che ignora il proprio Ieri, di cui non sa assolutamente nulla e non si cura di sapere nulla, non può avere un Domani. Io mi ricordo una definizione dell’Italia che mi dette in tempi lontanissimi un mio maestro e anche benefattore, che fu un grande giornalista, Ugo Ojetti, il quale mi disse: «Ma tu non hai ancora capito che l’Italia è un Paese di contemporanei, senza antenati né posteri perché senza memoria.»
Così, nella scia di Orsini, alcuni finti pacifisti pensano davvero che se la piccola Italia si ribellasse a questa congiuntura, la coscienza degli imperi, a ovest e a est, si desterebbe costernata dall'illusione di essere il centro del mondo?
Certo sciovinismo becero non è solo francese o inglese, lo coltiviamo anche da noi.
Tante analisi.
Ma poi, le conclusioni di questi scellerati parolai affondano nel grottesco.
Dovrebbero avere il coraggio di dire: "non ho proposte da fare, non possiedo la soluzione".
Basterebbe questo per evitare di essere considerati degli arroganti buffoni malati di protagonismo e di demagogia.
Invece, insistono nel loro teatrino e propongono idiozie, anche loro per raccogliere qualche like, non dalla corrente conformista ma dalla corrente contraria.
In fondo, stessa pasta.
Medesima mentalità infantile ed egocentrica.
Come disse, sempre Montanelli:
«Per fortuna che il ridicolo non uccide perché altrimenti in Italia ci sarebbe una strage.»
Rivendico la libertà di scrivere quello che penso, argomentando con garbo e senza nutrire timore per l'uso di qualche espressione sferzante.
Ieri su Martin Heidegger.
Oggi su Indro Montanelli.
Domani su Antonio Gramsci.
Ieri su Martin Heidegger.
Oggi su Indro Montanelli.
Domani su Antonio Gramsci.
E su qualunque argomento valga la mia pena di essere trattato.
Con onestà.
Severità verso le fonti.
Oggettività delle argomentazioni.
Sincerità nel dubbio.
Su questi presupposti, respingo con la massima fermezza chi si arroghi l’impudenza di giudicarmi o di attribuirmi un'etichetta.
Specie da chi si esalti di fronte a una sublime opera d’arte dimenticando come dietro a essa alberghi la storia, fatta d’inquietanti turpitudini oltre che di edificanti sentimenti.
E chi non ci sta a leggere e capire, a ragionare con equilibrio, a mantenere vivo il senso critico, chi fosse ottenebrato da pregiudizi o da scarso senso della percezione storica, può anche accomodarsi fuori da queste pagine: non sarà rimpianto.
Su questi presupposti, respingo con la massima fermezza chi si arroghi l’impudenza di giudicarmi o di attribuirmi un'etichetta.
Specie da chi si esalti di fronte a una sublime opera d’arte dimenticando come dietro a essa alberghi la storia, fatta d’inquietanti turpitudini oltre che di edificanti sentimenti.
E chi non ci sta a leggere e capire, a ragionare con equilibrio, a mantenere vivo il senso critico, chi fosse ottenebrato da pregiudizi o da scarso senso della percezione storica, può anche accomodarsi fuori da queste pagine: non sarà rimpianto.
«Le apparenze hanno per me uno straordinario valore e giudico tutto dall'abito... Ho il coraggio di essere superficiale.»Abbiate il coraggio di essere superficiali e levate le tende.