L'arte e la guerra

Quando è accaduto che l'arte abbia respinto la violenza? Per secoli non è stato così. Semmai, le opere d'arte hanno spesso costituito la rappresentazione dell'eroismo e dell'amor di patria, l'espressione retorica in manifesti rivoluzionari fino al culto dei leader dopo essere passati dall'iconografia divina degli imperatori e quella aulica dei regnanti, da Oriente a Occidente. Eppure, lo spartiacque della Grande Guerra, agli inizi del Novecento, ha prodotto la frattura, lo squarcio profondo e insanabile che connotò l'ironia Dada, influenzò le tele dell'espressionismo tedesco fino all'episodio che ispirò Guernica al geniale Picasso. Si era alle soglie del secondo conflitto mondiale. Poi, è accaduto che l'arte abbia tralasciato ogni riferimento al bellicismo, come volesse assecondare la diffusa voglia di dimenticare. Nonostante la seconda metà del XX secolo abbia vissuto conflitti cruenti, l'arte "engagé" ha  cambiato obiettivi, lasciandosi attraversare dalle correnti pseudo-pacifiste e libertarie, ecologiste e anticonsumiste, proclamando diritti e privilegi emersi nell'età della globalizzazione culturale. Ma non più sulla tela, divenuta marginale, sfruttando invece le grandi pareti dei fabbricati e dei muri in cemento armato dei centri urbani. Una forma di distrazione che ha relegato la pittura tradizionale negli anfratti di una componente elitaria dell'arte. Tutto è stato assorbito dal cinema e dalla televisione. Fino a quando l'avvento di sensibilità capaci di suscitare sentimenti collettivi, sono apparse, più semplicemente, il riflesso di una banale interpretazione di quei desideri giacenti. Nel frattempo, alcuni artisti non hanno mai smesso di sentire, profondamente, i drammi del mondo e di farne oggetto della loro ispirazione pittorica. Sono costoro ad aver tenuto in vita la pittura socialmente impegnata. Rimanendo fedeli a quell'idea dell'arte. Come nel caso di Roberto Bellucci, pittore contemporaneo di rara sensibilità, colto, capace di rendere la profondità in immediatezza.

Avverto, sempre più spesso, una potente sensazione di rammarico: la marginalità della pittura come forma d'espressione artistica. 
Per tentarne il recupero, almeno sul piano dell'attenzione intellettuale e, sperabilmente, su quello dell'interesse popolare, ho recentemente scritto un piccolo saggio sulla pittura contemporanea, riflettendo sull'origine del suo declino ma, soprattutto, sui segni che ne caratterizzano la sua rinascita nel nostro tempo: si tratta di vedere in questa antica forma d'espressione artistica e nella relativa semplicità dei suoi mezzi di realizzazione, insospettabili possibilità d'espansione.
Ecco un frammento tratto dalla premessa di "Sarà dipingere!":
[...] Durante un’intervista del 1956 rimasta celebre, Marcel Duchamp fece, tra le altre, quest’affermazione: «Io considero la pittura come mezzo di espressione e non un fine in se stesso. Un mezzo d’espressione tra altri mezzi e non il fine di una vita; nello stesso modo considero il colore solo come un mezzo d’espressione nella pittura e non il fine. In altre parole la pittura non dovrebbe essere esclusivamente retinica o visuale; dovrebbe avere a che fare con la materia grigia, con il nostro anelito a capire».
Sia chiaro: con queste parole Duchamp non si è spinto fino a quel confine oltre il quale si getti via la pittura. 
Ma ci si è avvicinato molto.
L’obiettivo è puntato sulla modifica del modello espressivo, l’uso che si fa del dipinto, tecnica compresa. Tuttavia, per misteriosa eterogenesi dei fini, l’effetto – evidentemente intuito ma non immaginato fino in fondo dall’artista franco-statunitense - è di rendere la pittura del tutto libera di sperimentare e quindi di uscire dalla gabbia asfittica di un modello canonico.
Però, commesso un delitto, non si può sempre gettare la colpa sul classico maggiordomo: per quanto sfumata, la critica proviene da un artista e intellettuale tra i più acuti del primo ‘900, uno di coloro che l’alternativa alla pittura “di pennello”, l’avevano respirata e praticata con particolare vivacità
Non a caso, nel 1958, solo due anni dopo, Lucio Fontana “taglia” la tela, compiendo uno dei gesti simbolici più drammatici nella storia dell’arte occidentale.
Un gesto che non è momentaneo e nemmeno contingente: è atto che cristallizza in una sintesi brutale e necessaria, tutta la storia della tela e della pittura a cavallo tra i due secoli, tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento.
Fontana è comunque in buona compagnia perché, nel frattempo, erano avvenuti almeno altri due avvenimenti significativi in quella storia: Pollock inventa il “dripping” e toglie ogni centralità e ogni riferimento testuale all’immagine pittorica; Alberto Burri conferisce dignità ai suoi sacchi di juta lacerati e cuciti.
Dunque, il pennello non esiste più. Al suo posto, il taglierino di Fontana, il barattolo di vernice forato di Pollock, l’ago – ma poi verrà anche la fiamma ossidrica – di Burri.
Il pennello e il disegno spariscono, la forma si dissolve.
Ma la tela è ancora lì, presente, attiva, metafisica.
E tremenda.
Come l’Essere di Parmenide. [...]
Già, la tela è ancora lì, sorniona, rimane in attesa. 
La sua presenza, mai doma, è di per sé atto di rivendicazione di ruolo.
Persiste, attraversata dalle tempeste dei mass media più pervasivi, divenendo un medium tipicamente "freddo" secondo la definizione mutuabile dal geniale McLuhan nel suo "Understanding media", un classico delle scienze della comunicazione risalente al lontano 1964.
Freddo perchè ingaggia una relazione inclusiva con l'osservatore, lo spinge alla riflessione, lo spinge a integrare l'immagine con il pensiero.
Così, mentre le altre forme d'arte puntano decisamente verso il "calore" di un'espressione esaustiva, plastica, tridimensionale, imponente, ingombrante, che riduce il ruolo del fruitore a mera funzione passiva, la tela e la pittura entrano a pieno titolo nel "villaggio globale" delle forme di comunicazione più antica, riflesse nelle tecnologie più moderne.
Per questa ragione, è da tempo necessario, per la pittura, abbandonare il modello della tradizionale "mostra" per proiettarsi nella visibilità raccontata del web, laddove le forme di partecipazione attiva appaiono sempre più emergenti.
D'altra parte, la saturazione dell'arte "non pittorica" nel corso dei decenni dal secondo dopoguerra in avanti, è venuta ad evidenza più per un'azione pedissequa al sentimento sociale che per la sua capacità di premonizione, quella geniale intuizione anticipatrice che ha sempre distinto l'opera d'arte dal banale orpello. 
Certamente è orpello quello che oggi viene definito - fino alla nausea - il detestabile "politically correct": inseguendo i gusti del pubblico ovvero indulgendo in un banale anticonformismo solo per essere più agevolmente accolta, l'arte contemporanea s'è lasciata consumare al pari di un prodotto da ipermercato, comodo e universale.
No, la pittura s'è rifiutata di essere tale.
Quando è vera pittura, quando è vera arte.
Le tele da arredo, le tele dipinte per fare da ornamento, le tele divenute imitazione e maniera, non appartengono alla pittura come espressione artistica.
Il tema della guerra può risultare davvero interessante per affermare questo principio guida: l'evento bellico è sostanzialmente sparito dall'arte contemporanea. 
La quale si è certamente lasciata ispirare, in molte occasioni, da altri temi d'introspezione soggettiva, di riflessione sulla natura umana, sui tratti emozionali che emergono nel rapporto tra questa e le vicende più significative del corso storico. 
Basti pensare al "Cretto di Gibellina" di Burri o ad alcune opere di Giacometti piuttosto che alle geniali "delocazioni" di Claudio Parmiggiani.
Non metto in secondo piano nemmeno alcune espressioni della Street Art concepite da writer come Banksy o prima di lui da Basquiat. 
Credo nell'originalità di Mimmo Rotella e dei suoi décollage.
Insomma, c'è molto di apprezzabile nell'arte contemporanea.
Ma la sua dissoluzione in quello che si potrebbe definire "atto unico" - i tagli di Fontana non hanno molto senso se ripetuti in serie -  mi porta a considerarla una sorta di performance, quindi caratterizzata dalla "temporaneità" dei media caldi.
Che tutto vogliono esprimere e tutto vogliono racchiudere in una sorta di "horror vacui" che possiede, tuttavia, la grandiosità del gesto perentorio, del segno assoluto.


La pittura possiede ancora una struttura polivalente, capace di apertura: le opere di Otto Dix (come "La grande città" o il "Trittico della guerra") raccontano la violenza concedendo enorme spazio alla riflessione, ancora oggi a distanza di quasi un secolo. 


E ancora più, ne rimane l'emblema sinteticamente estensivo "Guernica" di Picasso che fu realizzato nel 1937.


Il tema non si esaurisce in quelle espressioni: si solleva oltre il tempo. 
E riconcilia con l'arte.
Certo, sia ben chiaro: l'arte contemporanea, in tutte le sue declinazioni, rappresenta un campo d'interesse vastissimo.
Ma qui, il mio obiettivo è puntato sulla pittura e sulla sua capacità di essere testo che non si esaurisce in aforisma.
Cosa significa?
Che ogni testo pittorico si apre all'espressione di un pensiero multiforme quanto la storia che evoca; non la racchiude in un evento definitivo ma si pone come cenno inesauribile, come impegno che si fa carico della ricchezza, della profondità, della complessità.
Ed è in questo che la pittura emerge come "engagement", tappa ragionata del prendersi cura dei fatti e dei sentimenti: mentre certa arte contemporanea si limita al cenno sintetico, la pittura inizia dal segno e prosegue in un'incessante ricerca.
Lo permette il mezzo, la tela e i colori.
Lo induce il limite bi-dimensionale trasformato in opportunità espressiva.
Questi tratti caratteristici li ho ritrovati in Roberto Bellucci, classe 1959, romano, passato per una significativa esperienza in Africa, oggi napoletano anche per la ricchezza culturale che lo caratterizza.
Artista originale, pregno di una sensibilità che riesce a riversare sulla tela, possiede una rara capacità d'interpretazione  del rapporto misterioso che unisce la percezione del reale e la trasformazione in atto creativo.
Con "Il cielo di Kiev", dipinto di getto nei primissimi giorni del conflitto che segna quest'inizio di 22° anno del terzo millennio, Bellucci dimostra l'immediatezza dello stato d'animo riflesso in uno sguardo impressionato dall'energia di una luce improvvisa: non è identificabile, non possiede una semantica. 
Come un lampo, mantiene la sua apparizione terrifica in un centro di forze rovente che si espande senza più confine.
Una metafora della guerra?
Sarebbe troppo poco.
Si tratta di qualcosa che supera, di gran lunga, il semplice monito.
Qui, si è di fronte all'effetto espressivo dell'inestinguibile violenza umana, la tragedia diviene disillusione, conoscenza, partecipazione.
La profondità che il soggetto recupera, si apre alla comprensione degli sguardi molteplici.
E quest'apertura, vissuta come luogo della ricerca, si diffonde come una domanda vitale, necessaria, ineludibile.
Non giudica.
Ma si fa memoria etica.
Palpita.
Ma transita dall'emozione momentanea al sentimento, al suo stabilire una connessione culturale.
Così, ecco tutta la forza della pittura contemporanea: superare incessantemente se stessa, in un compimento infinito di relazioni che fanno testo.
Impronte di passi fondanti un cammino.


Un crogiolo di forme e di cromie che mutano i sensi in esperienza creativa.
"Umano troppo umano" si potrebbe affermare, parafrasando Nietzsche.
Ricordando, tuttavia, che il celebre testo del 1878 richiama il suo sottotitolo: "Un libro per spiriti liberi".
«L'artista ha, riguardo alla conoscenza della verità, una moralità più debole del pensatore: egli non vuole a nessun costo farsi privare delle interpretazioni che alla vita conferiscono splendore e profondità, e si ribella contro metodi e risultati freddi e schietti. In apparenza egli lotta per la superiore dignità e importanza dell'uomo; in verità non vuole rinunciare a quelle che sono le premesse più efficaci della propria arte, cioè al fantastico, al mitico, all'incerto, all'estremo, al senso del simbolico, alla sopravvalutazione della persona, alla fede che il genio sia qualcosa di miracoloso: egli ritiene dunque il perdurare della sua specie di creazione più importante della dedizione scientifica al vero in ogni forma, per spoglio che possa apparire.» Brano tratto da "Umano troppo umano", parte quarta, 146. "Il senso della verità dell'artista".
Questa libertà, rivendicata, protetta, continuamente riaffermata nell'atto espressivo, è senza dubbio la verità più intensa che Roberto Bellucci riesca a manifestare nella sua produzione pittorica.
Una verità libera da compromessi, vissuta come relazione diretta tra pensiero e immagine.
In questo solco, la pittura di Bellucci sembra tradire l'aspirazione della tela a suggerire la riflessione, ad essere integrata dalla meditazione dell'osservatore.
Ma è solo un'impressione.
No, anche quando nell'opera appare il gesto materico capace di esaltare i sensi, il risultato di quell'effetto è un abbaglio improvviso che diventa fascio di luce lungo una strada da percorrere.
Indica.
Si fa icona.
Chiede udienza.
E attende.


Un esempio ulteriore è nel suo recentissimo "Le anime di Kiev": la tela invasa da tracce di coscienze che pronunciano il loro silenzio. 
Nient'altro che questo.
E ben più di questo.
Il silenzio non è assenza: è parola dipinta.

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