MASACCIO, IL SALTO OLTRE GIOTTO
La poetica dell’artista toscano è tra le più significative del passaggio alla modernità della figurazione pittorica. Con le sue poche opere, venute in luce ai primi del Quattrocento, nel breve arco di un’esistenza consumatasi in fretta, compare la straordinaria intuizione verso temi, stili e aneliti concettuali che poi comporranno la produzione artistica in quel secolo di svolta, nell’arte come nella società.
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Il fascino della storia dell’arte è spiegabile, anche, con i misteri che avvolgono le vicende dei suoi innumerevoli protagonisti, vicende che si immergono nelle nebbie di un tempo lontanissimo non solo per mero conto cronologico, ma anche per modelli sociali, cultura, visioni.
Masaccio è uno dei pittori quattrocenteschi che incarna quest’aura di leggenda silenziosa, autore dirompente ben più di quanto si possa immaginare.
Trovandomi a Firenze, non ho potuto fare a meno di lasciarmi sedurre dagli affreschi dell’artista di San Giovanni Valdarno, visitandone i due luoghi elettivi: la Cappella Brancacci nella chiesa di Santa Maria del Carmine e Santa Maria Novella, nelle quali sono custodite opere inimmaginabili.
Non ci si meravigli per l’aggettivo: non sono opere che si possano catalogare tra le espressioni tipiche di quel mondo artistico, seppure vissuto come formidabile crogiolo di innovazione.
Non è immaginabile trovarsi innanzi a espressioni figurative che rompano insanabilmente i canoni dell’atto pittorico, non esclusivamente quello del segno gotico di cui si narra nei testi antologici della storia dell’arte.
Già, perché la questione non è solo di stile, come viene in chiara evidenza nella Cappella Brancacci: nell’affresco del “Tributo”, l’osservatore assiste a tre scene racchiuse in un unico riquadro, a testimonianza di un paradigma inusitato, che pone in correlazione causale il racconto e trasforma la pittura in flusso narrativo.
Si tratta dell’influenza della scultura sull’arte del pennello, qualcosa che tende a rompere lo schema tradizionale del basso o dell’alto rilievo didascalico che, da Wiligelmo a Benedetto Antelami fino ai Pisano, aveva reso nella concretezza dell’opera l’orientamento gregoriano sul valore delle immagini sacre.
Con Masaccio, la visione del racconto biblico ed evangelico si tinge di forti connotati, di figure che prorompono in rappresentazioni di corpi “statuari” che corrompono la tela per l’esigenza di manifestare la loro presenza.
Sono corpi veri quelli di Masaccio, corpi che compiono gesti, che vibrano di passione, che mostrano la loro carica sentimentale, corpi che tracciano la storia, la percorrono, la vivono.
Come era già accaduto nella scultura.
Come non era mai accaduto, con una simile imponenza e pregnanza di fisicità, nella pittura.
Neanche in quella giottesca e nei primitivi epigoni del XIV secolo.
Basti osservare il corpo tremante nel “Battesimo dei neofiti” o la figura in ginocchio che riceve il sacramento da Pietro, per confermare, ove fosse necessario, la fondatezza dell’analisi.
Il raffronto con Masolino, sodale di Masaccio nell’incarico degli affreschi della famosa cappella, è sorprendente: ma non potrebbe essere diversamente.
Questo è un aspetto da sempre esaltato.
Una sorta di riconoscimento da manuale: un'opera, due mondi.
Tuttavia, questo raffronto si fonda sempre sulla matrice stilistica e non osserva i riferimenti concettuali.
La “chiesa” che rappresenta Masaccio è quella che emerge dalla lunga crisi trecentesca e dal profondo logorio della visione francescana, che già ebbe effetto sulla rivoluzione pittorica di Giotto, ma che ai primi del Quattrocento si era seduta su quel canone senza esigere il passo successivo, quello rivolto ad una carnalità simile a quella che la scultura aveva già impresso a se stessa.
Questo è il salto che Masaccio fa compiere alla pittura, consapevole delle sue potenzialità narrative e prospettiche.
Fino a giungere ad un’apoteosi dei principi conoscitivi in Santa Maria Novella, con la “Trinità”.
Qui si trova un’espressione figurativa che supera ogni precedente e che pochi hanno indicato: la presenza, in forma antropomorfa, del Dio Padre e della colomba dello Spirito Santo, che sovrastano il Cristo crocifisso.
Si tratta di una delle prime immagini pittoriche, di così piena rappresentazione, del concetto mistico che più di ogni altro dà consistenza alla tradizione cristiana occidentale.
Se dovessi rintracciare un precedente, lo indicherei nella tomba del dottore in legge Martino Aliprandi, risalente al 1341, che si trova nella chiesa di San Marco a Milano.
Non a caso, un'opera di scultura.
È alla “materia dura” che occorre volgere lo sguardo per comprendere la poetica di Masaccio: da lì, dai corpi che la scultura ha plasmato rifuggendo sempre più dall’idealità delle forme per chiedere la verità delle anime, Masaccio apprende la forza che le immagini pittoriche possono sostenere, fino a lasciarle esplodere nella dimensione plastica della prospettiva.
Laddove, anche Dio Padre è un corpo e lo Spirito Santo è anch’esso il corpo di una colomba.
Corpi, come di coloro che risorgono, come è recitato nel “Credo”, come sembra dire all’osservatore la Madonna la quale, fissandolo, lascia cadere la mano ad indicare la verità di fede posta innanzi al credente:
Io credo nello Spirito Santo;
la santa Chiesa universale;
la comunione dei santi;
la remissione dei peccati;
la risurrezione della carne;
la vita eterna.
Amen.
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