I grattacieli di Firenze

La torre del campanile ma soprattutto la cupola della basilica di Santa Maria del Fiore costituiscono, ancora oggi, un esempio di stile, imponenza, ingegno, eccellenza. Ma non si ci può limitare all’apprezzamento architettonico: occorre considerarle “corpi vivi” di Firenze, espressione di una possibilità sinestetica, un incontro coinvolgente tra spiriti che vagano nel tempo. Ecco il breve racconto di “scalate” compiute un attimo prima del mondo infestato dal “coronavirus”

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Sotto Natale 2019, una camminata per Firenze. 
Tra musei, chiese e cappelle. 
Senza un centro verso cui convergere, una gerarchia di scelte: ogni luogo è meraviglia, stupore, domande. 
Eppure c’è qualcosa che segna la mente con l’ebrezza di una piccola avventura: salire sulle vette della città del Giglio.
Non mi era mai accaduto. E non avevo alcuna idea di cosa mi aspettasse.
Si comincia dalla cupola del Brunelleschi: 463 gradini. 
Tanti? 
Pochi?
La porta di accesso è collocata lungo la navata sinistra. 
I primi gradini ed è come un tuffo nel passato. 
Banale, forse. Ma è una sensazione intensa perché non è vissuta solo con gli occhi. 
È tutto il corpo a sentire e toccare quelle soglie, a tastare i muri, ad avvertirne l’odore inesplicabile che si mischia al sapore acre della bocca asciutta per la fatica. 
Una rampa dopo l’altra, ogni pianerottolo è la tappa per tirare il fiato in una salita sempre più vertiginosa: non finisce mai.
Finalmente, il passaggio intermedio: all’interno di Santa Maria del Fiore, sul corridoio strettissimo che percorre il tamburo del cupola. 


Non sono ancora in cima ma la basilica vista da lassù prende la materialità di un sogno che annulla la legge di gravità: dipinte dal Vasari e poi da Federico Zuccari, tra le figure che volteggiano ci sono anch’io.
Arduo fermarsi a lungo, il viaggio non è finito. 
Tra il rimpianto latente di non possedere il privilegio ambiguo della solitudine e la libertà di scegliere la misura del tempo, si affaccia anche il desiderio di percorrere quello sconosciuto corpo di pietra. 
Così, mi infilo in un budello di scale sempre più anguste e sempre più ripide, con un andamento a chiocciola che alimenta l’ansia dell’ascesa, il desiderio della vetta, l’emozione di raggiungere il traguardo.
Ormai sono come uno scalatore che misura le forze e organizza il ritmo dei passi. 
Un gradino dopo l’altro, provo sollievo quando incrocio qualcuno in discesa: gli lascio il passo e prendo fiato. 
Ho il tempo di osservare la struttura portante fatta di mattoni mirabilmente incrociati: per me, che ogni tanto mi diletto a tirar su tramezzi a facciavista, è come assistere ad un prodigio.
Non c’è tempo, adesso. 
Continuo a salire. 
E a salire. 
E a salire ancora.
Sì, 463 gradini sono davvero tanti. 
Quattrocentosessantatre!
Confesso di aver provato una sensazione di débâcle. 
Ma è solo un attimo.


Lungo la salita incrocio un arrancante turista che fa da tappo per quanto è lento. 
Scopro trattarsi di un fiorentino della mia stessa età, finito lassù chissà per quale ragione, pronto persino a vantarsi di essere un runner. Bah.
Mi consolo. 
Dopo un paio di rampe lo lascio indietro a borbottare frasi scomposte. 
Il caso vorrà farmelo ritrovare anche durante la discesa, ancora più lento a causa, dice lui, di una tendinite. 
Insomma, l'ignoto fiorentino è poco più di un rottame da sorpassare sghignazzando.
Nonostante il freddo, tiro via il giaccone e proseguo rianimato anche se il peso dello zaino dovrà accompagnarmi: pessima idea portarlo con me. 
Eppure, è il necessario fardello del viaggiatore.
Mi aiuto con entrambe le mani: ormai sono entrato in simbiosi con le forme di questo canale venoso che diventa via via più opprimente, che sfida ed attrae, che sorride alla fatica, che ti fa oggetto di scherno. 
Ed è come se potessi sentire, lasciate lì tra gli anfratti incombenti delle pareti alla mia sinistra, le bestemmie degli operai che salirono quassù per costruirle, dal 1420 al 1436.
Lascio anche le mie.
C’è chi le appella come invocazioni a Dio.
Sacro e profano. L’eterna coppia della storia.
Ormai ci siamo: lassù, in cima, alla base della lanterna, ho compiuto il percorso del mio purgatorio. 
Di fronte a me, mentre respiro a pieni polmoni la brezza gelida del tardo pomeriggio, posso godermi il frutto di quella fatica di corpo e di spirito. 
Firenze, la voluttà di ammirarla dall’alto, come mai l’avevo vista e mai meglio di così la vedrò. 
Al massimo posso immaginare di rivederla.


Vedo il campanile di Giotto, prossima, imminente fatica.
Ma sarà diverso: più tappe intermedie, minore sensazione di limitatezza dello spazio che è più aperto, regolare, scandito da ampi locali intermedi, dalle logge a sesto acuto delle bifore e delle trifore finali e dai fori di luce che accompagnano il pur lungo percorso. 
Mi apparirà come il corpo di una figura più austera e rigida, eppure gentile e accogliente. 
Anche su quella cima una visione d’imprecisabile rapimento.
In quel momento, a fine 2019, né io né qualcun altro lì assieme a me era sfiorato dal pensiero del “coronavirus”, notizia ancora lontanissima.

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