Lo spirito del tempo
Al museo dell’Opera del Duomo a Firenze è conservata la “Maddalena” di Donatello. Una figura impressionante capace di attraversare il tempo, monito universale la cui natura, tuttavia, sembra ricevere dal futuro il suo tratto ispiratore. Breve descrizione di una ridondanza visionaria che trova nella mente lo strumento di una correlazione impossibile.
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A nessuno può sfuggire che il primo scopo di un’opera d’arte sia quello di colpire l’attenzione dell’osservatore suscitando un sentimento.
Negli anni ’90 del novecento questa capacità venne definita “intelligenza emotiva” e declinata secondo formule proprie della psicologia.
Ma è una questione antica quanto l’uomo stesso: non si può porre alcuna distinzione tra razionalità e sentimento poiché l’affettività è veicolo del pensiero e non la sua immatura espressione.
Anzi, proprio nell’arte si manifesta la potenza dei moti d’animo, una forza capace di attrarre e di indurre, di formare il pensiero, di accendere la riflessione più profonda, fino a giungere a sintesi meravigliose entro le quali si riesca a contenere il senso di un’epoca.
Così, non è infrequente che un’opera d’arte incroci la sensibilità individuale e venga descritta su quelle corde, trasferendo significati che appartengono alla cultura personale, riverberandosi nel rapporto con il fenomeno figurativo.
Accade più spesso di quanto s’immagini, emergendo attraverso un frasario molto comune: “quell’opera mi ha ricordato…”; oppure: “sono rimasto colpito ma non riesco a spiegarne la ragione”.
Dunque, non esiste uno spazio oggettivo al quale chi osserva debba necessariamente uniformarsi quando si tratti di esprimere apprezzamento.
Semmai accade quando il significato di un’opera diviene l’obiettivo di uno studio, di un’indagine conoscitiva che abbia come scopo la percezione dell’origine dell’atto creativo nella sua dimensione storica.
Ma quando sono in un museo, preferisco essere un percettore di sentimenti e di significati personali: un modo per essere sulla lunghezza d’onda di un artista che sapeva bene di parlare all’epoca sua come al futuro, con la segreta speranza di continuare ad essere scintilla d’anime e di viaggiare negli anfratti del tempo suscitando una misteriosa storia delle emozioni.
Ecco, di fronte alla “Maddalena” di Donatello, conservata al museo dell’Opera del Duomo di Firenze, la mia essenza di uomo a cavallo tra due secoli si è fatta sentire, trasformandomi nel tramite di un silenzioso idillio che ha unito due artisti: Donatello, appunto, che descrisse la figura evangelica con tratti di radicale purezza mistica, e uno scrittore, Fëdor Michajlovič Dostoevskij la cui profondità del fardello religioso si è imposta nella ricerca esistenziale sulla quale poggia, fino a svelarsi, la natura passionale dei suoi personaggi.
L’estenuata rappresentazione di sofferenza della Maddalena alla quale l’artista fiorentino del XV secolo dona un’espressività terrificante, non è diversa dalla figura estrema della “Marie” de “L’idiota” del celebre scrittore russo.
Subito, come in un lampo, le due immagini si sono sovrapposte nella mente.
Non ricordavo, al momento, le esatte parole di Dostoevskij.
Eppure, ne ho avvertito la presenza descrittiva senza dolermi di una violazione del tutto presunta: gli atti dell’esistenza, nella loro forma artistica, penetrano nel tempo fino a ricomporre lo spazio in una nuova esperienza, come la luce di una stella che percorre inesorabile distanze imponderabili mostrando l’impulso di un mondo già scomparso.
Era evidente che il primo interesse sarebbe stato, più tardi, ritrovare quelle pagine del grande romanziere russo:
[…] Essa tornò a casa mendicando, tutta infangata, lacera, con le scarpe rotte; aveva camminato a piedi una settimana intera, passando la notte nei campi, e aveva preso freddo per bene; aveva i piedi coperti di piaghe, le mani gonfie e screpolate. Anche prima, del resto, non era mai stata bella; ma i suoi occhi eran dolci, buoni, innocenti. […].
E ancora:
[…] Davanti alla folla accorsa, si coprì il viso coi capelli scomposti e si prostrò bocconi. Tutti intorno la guardavano come si guarda un rettile; i vecchi la condannavano e l’insultavano, i giovani ridevan perfino, anche le donne avevano per lei ingiurie e rimbrotti, e un tale disprezzo, come se fosse un verme… Quasi quasi le sputavano addosso e gli uomini avevano smesso perfino di considerarla come una donna… Alla fine i suoi cenci si ridussero in brandelli, tanto che essa si vergognava di mostrarsi nel villaggio; scalza poi era sempre andata fin dal suo ritorno… Ormai era molto malata e camminava a fatica… il suo viso era dimagrito, scheletrico, e il sudore le bagnava la fronte e le tempie… Era come pazza, in uno stato di estrema agitazione e di estasi. […].
Sono pagine strazianti che forse nessuna immagine potrebbe rendere in una forma. Nessuna, tranne quella della Maddalena di Donatello, proprio l’opera di un genio che Dostoevskij avrebbe potuto ispirare.
Non Jacopo da Varazze, frate domenicano ed agiografo del ‘200 che, probabilmente, con la sua “Legenda Aurea” divenne fonte del celebre scultore, ma un autore vissuto quattro secoli dopo.
Perché meravigliarsi?
Persino Dante descrisse le “storie archetipali” come testi dell’immaginazione, della fantasia, che fluttuano nel tempo emergendo senza alcuna spiegazione razionale che non sia una proiezione indotta:[…] Poi piovve dentro all’alta fantasia […].
Ce lo ricorda Italo Calvino in una delle sue "Lezioni americane" chiamando a sostegno proprio Dante e, per lui, Tommaso d’Aquino.
In fondo, tutto è visione: dall’immagine fisica a quella che è generata da un testo con gli occhi della mente. Con la “Maddalena” di Donatello questo processo avviene attraverso un fenomeno inverso che prima indica la figura e poi salta al testo che avrebbe dovuto ispirarla nell’espressione creativa.
È uno dei misteri dell’arte.
Un segno che chiede incessantemente di essere rivelato.
Non per quel che rimane.
Ma per ciò che sarà.
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