Italia tra 'krisis' e 'epoché'
Paralleli d'inizio secolo. Doveva essere questo il titolo dell'articolo. Sì, una visionaria percezione, un "déjà-vu" capace di proiettare l'attenzione sulla storia dell'Europa e dell'Occidente ai primi del Novecento, quando la "Belle Époque" svanì d'un colpo nel suicidio della "Grande Guerra". Oggi impossibile a causa del predominio della tecnica che mai concederebbe la sua autodistruzione. Nel frattempo, il giudizio e la separazione netta, la "krisis" tra il prima e il dopo non è stata ancora compresa dal nostro Paese, che vive una condizione di sospensione, una sorta di "epoché" allucinata e infantile, l'attesa incosciente che la tempesta finisca, la falsa saggezza di una falsa memoria.
Cos'è questa storia nella quale siamo immersi?
C'è chi, come Massimo Cacciari, la considera un'epoca assiale, rimembrando il celebre "Origine e senso della storia" proposto dal filosofo tedesco Karl Jaspers nell'ormai lontano 1949. Una stagione nella quale un modello di umanità sarebbe al tramonto per fare spazio ad un mondo nuovo e sconosciuto, nel quale il controllo della tecnica tornerà ad essere pieno appannaggio degli uomini e non dominio incontrollabile e indeterminabile.
Questo è l'approdo finale nello scenario di Jaspers, forse anche in quello di Cacciari che, recentemente, ha scritto un saggio su Weber, "Il lavoro dello spirito", particolarmente ricco di riflessioni profonde sul nostro tempo.
Eppure, anche se mitigata da una necessità consapevole, propedeutica a un ipotizzato progresso, la domanda rimane: è davvero così?
E quanto tempo occorrerà e cosa dovrà accadere?
Non sono aspetti marginali: non si debbono accettare come ineluttabili le sofferenze che annunciano il mutamento radicale.
Si tratta, invece, di essere pienamente vivi, protagonisti dei fatti, dentro le vicende.
E di compiere uno sforzo per far convivere un doppio sguardo: quello più profondo, lo sguardo di prospettiva che ci indica la rotta, come tenta di fare Cacciari, assieme ad un colpo d'occhio sul presente, per non essere schiacciati dal senso di passività, per non farsi sconfiggere dall'incertezza di non sapere, o di non voler sapere.
Le parole ci aiutano a capire: perché le parole ci precedono e spiegano molto, molto meglio di chi crede di poterle usarle come uno strumento.
Ecco la prima: "krisis".
Proviene dal greco κρίσις che si traduce comunemente con scelta, decisione, ma significa anche la fase, appunto, decisiva di una malattia, nella quale occorre necessariamente giudicare e distinguere i sintomi e gli effetti per poter agire con giudizio.
L'altra parola è "epoché".
Anche questo è un sostantivo che ha origine nel greco ἐποχή ed assume un significato diametralmente opposto: sospendere il giudizio, accettare l'incertezza e l'impossibilità di conoscere. Parola chiave della corrente scettica, poi ripresa anche da Husserl, il filosofo tedesco che fu maestro, ripudiato, di Heidegger.
La crisi è dunque un'esperienza che deve indurre alla decisione, a scelte ponderate, consapevoli, coraggiose, impegnative.
Ecco perché questo, che è un tempo di crisi, è anche il tempo delle decisioni: la "krisis" impone una presa di posizione e non la tiepidezza di un'equivoca moderazione, quella che attende solo l'occasione più facile, l'accodarsi in scia delle maggioranze momentanee, l'adagiarsi nel solco più ampio e accogliente, oppure l'illusione dei raggi di sole nella tempesta.
Via i tiepidi!
Questo vale per i singoli.
E vale per i popoli.
Le nazioni sono chiamate a recepire il senso di questa "bagarre" diffusa, non più per assecondarla ma per affrontarla con la stessa accesa concitazione che la pervade.
Come?
Ragionando, coraggiosamente, come classe dirigente.
Che Paese è l'Italia, oggi?
Una confusa landa desolata.
Nella quale a prevalere è la sospensione del giudizio, l'errore grave che si commette nella crisi, lasciarsi andare e accettare che a prevalere sia la parola opposta: "epoché".
La realtà è inattingibile.
Dunque, si rimanga fermi a guardare.
Questo sembra essere il modello di pensiero diffuso nel nostro sciagurato Paese.
Immobilismo. Oppure movimentismo acefalo.
C'è chi osserva. E c'è chi reagisce con l'irrazionalità, con la rabbia, con le pretese egoiste, con l'insensatezza del complotto e il radicalismo di un ordine presunto, fasullo, pasticciato, improvvisato.
Si cominci a fare altro.
Si smetta con i proclami e si straccino le pagelline.
Si eviti di accettare le parole "tattiche" dei politici, di ogni fronte, di ogni partito, di ogni movimento, di ogni genere, maschi e femmine qui davvero nella più bassa delle parità: parole fumose, ridicole, intrise di melensa, grottesca retorica da giardino d'infanzia.
Non valgono nulla: sia quelle che si assumono provenire dal cosiddetto "sistema" che quelle pronunciate dai falsi teatranti da "antisistema".
Robaccia ormai indigesta, "flatus vocis" di incompetenti, mediocri, pusillanime, inutili.
Alzi la mano chi, dirigendo la più piccola delle aziende, sarebbe disposto ad assumere un elemento dell'attuale classe politica come magazziniere, il "sogno" - siamo arrivati a questo, da non credere - che propone Amazon nei suoi spot.
Dunque, chi sarebbe disposto?
Nessuno.
Ne sono certo, nessuno.
Eppure, questa gente, che nessuno assumerebbe, dirige il Paese.
E non si tratta solo della classe politica: è indecente gran parte del ceto burocratico di questo povero Paese. Una presenza insidiosa fatta di satrapi che nell'ombra produce più danni di quanto si possa immaginare.
Si cominci ad ascoltare chi guarda allo scenario indicando soluzioni studiate con cura, concrete, credibili, realizzabili.
Non di quelle che fa comodo sentire.
E che sappia argomentare con la chiarezza dell'intelligenza, senza usare la propaganda degli imbonitori.
In questo, Berlusconi e la "seconda repubblica", hanno trasformato quella che appariva un'opportuna innovazione nel linguaggio, in un gridato scadimento da mercato rionale.
La politica non può ancora rappresentarsi con gli "occorre", i "bisogna", i "si deve": diamine, chi deve? Quando?
E come?
Se la politica italiana si risolve in commenti da pappardella delle elementari, fatta di frasi imparate a memoria da cialtroni ripuliti, tanto vale spegnere la tv e il pc e tornare a usare il telefono in modo tradizionale: il silenzio può fare "tabula rasa" e suggerirci qualche buona lettura.
No, questa non è politica: è la sua degenerazione.
E' oligarchia. Ed è demagogia.
Entrambe detestate da Platone, che così le descrive (La Repubblica, capitolo VIII):
«...Quando la città retta a democrazia si ubriaca di libertà confondendola con la licenza, con l’aiuto di cattivi coppieri costretti a comprarsi l’immunità con dosi sempre massicce d’indulgenza verso ogni sorta di illegalità e di soperchieria...
Quando questa città si copre di fango accettando di farsi serva di uomini di fango per potere continuare a vivere e ad ingrassare nel fango...
In un ambiente siffatto, in cui il maestro teme ed adula gli scolari e gli scolari non tengono in alcun conto i maestri; in cui tutto si mescola e si confonde; in cui chi comanda finge, per comandare sempre di più, di mettersi al servizio di chi è comandato e ne lusinga, per sfruttarli, tutti i vizi; in cui i rapporti tra gli uni e gli altri sono regolati soltanto dalle reciproche convenienze nelle reciproche tolleranze; in cui la demagogia dell’uguaglianza rende impraticabile qualsiasi selezione, ed anzi costringe tutti a misurare il passo delle gambe su chi le ha più corte...
In cui l’unico rimedio contro il favoritismo consiste nella molteplicità e moltiplicazione dei favori; in cui tutto è concesso a tutti in modo che tutti ne diventino complici...
In un ambiente siffatto, quando raggiunge il culmine dell’anarchia e nessuno è più sicuro di nulla...
E i rifiuti si ammonticchiano per le strade perché nessuno può comandare a nessuno di sgombrarli...
In un ambiente siffatto, dico, pensi tu che il cittadino accorrerebbe a difendere la libertà, quella libertà, dal pericolo dell’autoritarismo?
Ecco, secondo me, come nascono le dittature.
Esse hanno due madri.
Una è l’oligarchia quando degenera, per le sue lotte interne, in satrapia.
L’altra è la democrazia quando, per sete di libertà e per l’inettitudine dei suoi capi,
precipita nella corruzione e nella paralisi.
Allora la gente si separa da coloro cui fa la colpa di averla condotta a tale disastro e si prepara a rinnegarla prima coi sarcasmi, poi con la violenza che della dittatura è pronuba e levatrice.
Così la democrazia muore: per abuso di se stessa.
E prima che nel sangue, nel ridicolo.»
Ne siamo immersi.
Quale valore hanno oggi i diritti del lavoro in un'epoca che ha diviso chi è protetto contro ogni eventualità da coloro che non lo sono in nulla?
Quale valore ha oggi la sanità universale in in Paese nel quale esistono regioni che questo diritto lo hanno reso inapplicabile con liste d'attesa di anni e il degrado degli ospedali?
Quale valore ha oggi la libertà in un Paese oppresso da strutture criminali che mischiano la violenza privata al sopruso pubblico, che usano le armi e le istituzioni, che uccidono, sfruttano, impediscono l'iniziativa privata e provocano la fame?
Funzionare significa essere in grado di corrispondere agli scopi originariamente definiti.
Ebbene, il nostro Paese, la comunità nata con l'obiettivo etico di proteggere dalle minacce e di tutelare i diritti, funziona?
Chi crede, in coscienza, che il nostro modello giudiziario funzioni?
Chi crede, in coscienza, che il nostro modello sanitario funzioni?
Chi crede, in coscienza, che il nostro modello fiscale funzioni?
Chi crede, in coscienza, che il nostro modello scolastico e universitario funzioni?
Chi crede, in coscienza, che il nostro modello previdenziale funzioni?
Chi crede, in coscienza, che il nostro modello burocratico funzioni?
Chi crede, in coscienza, che il nostro modello istituzionale funzioni?
Chi crede, in coscienza, che il nostro modello di tutela del patrimonio culturale e ambientale funzioni?
Elenco, evidentemente, limitato.
L'intero arco parlamentare, i consigli e le giunte regionali, i consigli e le giunte comunali, tutta la classe politica e dirigente attuale conosce bene il dramma nel quale il Paese è immerso.
Eppure, non va in direzione della "krisis", della scelta, della separazione del male da un bene possibile e diffuso, ma si accoda essa stessa, come un cane che insegue grottescamente la sua estremità, cianciando in favore di vento parole che nascondono la sua sostanziale, tiepida, indeterminata "epochè".
Così, nascono figure che appaiono esempi di salvezza: il presidente del consiglio Conte divenuto "punto di equilibrio della maggioranza" - frase anche questa imparata a memoria e pronunciata come un hashtag - rappresenta l'esempio lampante della miseria intellettuale di questa classe politica e di questo, ripeto, sciagurato Paese.
Cosa avrebbe fatto Conte se non mostrare la scaltrezza di un improvvisato comunicatore bravissimo a sguazzare nell'indeterminatezza e nell'immobilismo elevate a virtù?
L'efficacia della sua comunicazione è direttamente proporzionale alla sordità di chi voglia sentire solo frasi consolatorie.
Conte è il nuovo "Cino Tortorella": il conduttore simpatico per il nuovo "Zecchino d'Oro" di una nazione regredita all'infanzia.
Si legga bene il suo percorso, le sue parole, i suoi atti, quel che non ha fatto, quel che ha taciuto, quel che ha usato, per tenersi ben piantato, assieme ai partiti, tutti, a Palazzo Chigi.
Conte divenuto capro espiatorio?
Se lo si considera il portatore di tutti i mali, sì.
Basterebbe fare cenno ai presidenti di Regione per aprire un "capitolo nero" sul disastroso decentramento italiano.
Allora occorre aggiungere che il professor Conte non è certamente peggiore di altri.
Anzi, l'attuale presidente del consiglio potrebbe essere un eccellente ministro degli Esteri: ha mostrato, in questo campo, qualità e competenza non comuni.
Peccato.
Sembra il classico caso della persona giusta nel ruolo sbagliato.
Fatte queste precisazioni, occorre aggiungere, con schiettezza, che dietro lo schermo della pandemia e delle mille giustificazioni che si sono costruite nell'utile riparo di una tragedia vera e terribile, si è nascosta l'inconsistenza.
Un esempio su tutti?
I progetti insostenibili, affastellati con sorprendente superficialità, relativi all'impiego dei fondi europei straordinari del "Next Generation EU".
E la riapertura delle scuole sostenuta solo dall'ottimismo della volontà?
Propaganda.
Sulla pelle di studenti, insegnanti, famiglie.
E i famosi ristori e ancora prima i prestiti delle banche?
Lasciamo perdere, per carità di patria.
Era già emersa, sullo sfondo, la reale identità del presidente del consiglio, un uomo da "epoché", impastato fino al midollo di banale retorica forense, che vorrebbe continuare a tenere in mano il Paese con qualche sorriso e uno sguardo ammiccante.
E chi s'è incaricato di togliere il velo?
Il più egocentrico megalomane arrampicatore tra i giovani politici italiani: Matteo Renzi.
Meglio conosciuto, per la cronaca recente, come il "Lo-Renzi d'Arabia".
Colui che, qualche anno fa, il velo di una reputazione inizialmente eccellente è riuscito a levarselo da solo, mostrando la nudità dei propri limiti.
E ancora.
La maggioranza attuale? Vuota di sostanza, piena di chiacchiere.
L'opposizione attuale? Piena di chiacchiere, vuota di sostanza.
Altri leader? Nessuno.
Si salva qualcuno?
Nella maggioranza spicca, per serietà e impegno convincenti, il vice ministro della Salute, Pierpaolo Sileri, una nuova e incoraggiante figura.
Tra le opposizioni, segnalo Emma Bonino, "vox clamantis in deserto".
Troppo poco?
Del resto, dove si pensava di arrivare con questa scuola e quest'università?
Ecco il risultato di generazioni abbandonate all'informazione scolastica e accademica, non più coscienti del significato di educazione al sapere.
E la povertà delle menti si sta trasformando, rapidamente, in povertà materiale, sempre più diffusa, quanto lo sia, ormai, anche la prima.
Per quale misterioso arcano la politica e la dirigenza pubblica dovrebbero essere migliori del Paese nel suo insieme?
La risposta, a questo punto, potrebbe suonare sorprendente: perché l'Italia è migliore di quel che appare.
L'Italia ha solo bisogno di essere aiutata a vedersi per quello che è.
Soprattutto, occorre incoraggiarla a credere in quello che potrebbe diventare.
Come dire: la malattia è grave ma il corpo è sano, possiede risorse, nasconde potenzialità.
E poi, i buoni esempi, dove sono?
Esistono: nel mondo politico, nella magistratura, nel ceto dirigente, in alcuni ambiti ben organizzati dell'amministrazione pubblica.
Ma rimangono liminari, periferici, minoritari.
Di certo, così non va.
Devono emergere.
Nella "Fenomenologia dello spirito", Hegel scrive una frase irrinunciabile, grave, vera:
«...soltanto mettendo in gioco la vita si conserva la libertà.»
Sorga chi possieda logos e coraggio.
Sorga chi sia in grado di raccontare sul serio, con sfrontato realismo, la tragedia di questo Paese.
Sorga chi si senta capace di sacrificare parte della propria esistenza per incidere sui mali che alimentano il dolore collettivo tenuto nascosto, la povertà che avanza, la paura e lo smarrimento di fronte al disastro quotidiano.
Sorga chi sappia parlare con i fatti. E sia pronto a riformare davvero questo Paese, con lo scopo di restituire benessere e prospettive d'avanzamento.
Sorga chi abbia a cuore la parola come traccia profonda di un nuovo senso etico.
Sorga chi sia disposto a sopportare gli insulti di coloro che non accettino di ascoltare la diagnosi della malattia e la sua prognosi sempre più evidente.Sorga, quest'Italia maledetta da Dio, sorga dal buio nel quale s'è cacciata.
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