L'ultimo Prometèo
E' accaduto durante uno di questi giorni: Giuseppe Prinzi mi ha parlato del suo nuovo catalogo ed io, incuriosito, ho voluto vederne la bozza. Per abitudine, non recensisco e tanto meno scrivo introduzioni o presentazioni di opere artistiche: per me non è come fare un mestiere. L'arte deve colpirmi, scavare dalla percezione fin dentro gli anfratti nascosti del pensiero. Allora, nasce un'esigenza d'animo che mi spinge a occuparmene. Così è accaduto con le opere di Prinzi. Esiste in quelle figure qualcosa che affonda le radici in un tempo remotissimo, qualcosa che l'artista siciliano riesce a rendere vivido e che, nello stesso tempo, rimane avvolto da un campo di forze sconosciute. Ecco cosa è emerso da un pomeriggio di suggestione visiva che ha scosso le corde di una memoria silenziosa. Diventando presentazione al suo catalogo di prossima pubblicazione.
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L’arte la evoca, nell’unico modo possibile: uno sguardo silenzioso che accompagna il soffio drammatico della parola che manca.
Come il nostro Giuseppe Ungaretti seppe descrivere:
Come il nostro Giuseppe Ungaretti seppe descrivere:
«…Quando trovoLa parola è pensiero, la parola, tuttavia, non è prohaíresis, non è scelta, non è iniziativa volontaria, non è progetto: nell’arte, la parola è una traccia che conduce fino a confini inesplicabili per collocarsi sulla soglia dell’inconoscibile, sul crinale di quell’abisso di fronte al quale il tumulto dello spirito è suscitato dallo sguardo che contempla, che atterrisce, che interroga.
in questo mio silenzio
una parola
scavata è nella mia vita
come un abisso»[1]
Così, sospinta ad apparire dall’implorazione di un’anima, la parola prende forma, diviene immagine e volti e occhi di quei recessi profondi che abitano il tempo.
Quell’anima, così suadente nella nitida nobiltà dell’incanto, appartiene a Giuseppe Prinzi, cantore di un antico suono dipinto, che colma di silenzio l’ineffabile racconto dell’origine.
Quell’anima, così suadente nella nitida nobiltà dell’incanto, appartiene a Giuseppe Prinzi, cantore di un antico suono dipinto, che colma di silenzio l’ineffabile racconto dell’origine.
Le linee nette, il colore carico di sottili scenari provenienti dagli anfratti caliginosi dell’essere, mostrano l’eredità di una cultura remota, quella che traeva le figure dalla sapienza della tecnica ceramica per stagliarle sulla superficie come in un sogno perenne.
Mai decorazione, sempre richiamo.
Mai decorazione, sempre richiamo.
Ma è un lascito giacente che non ha il carattere del possesso, dell’assunzione materiale: si tratta, invece, di un ascolto del quale Prinzi si fa oracolo.
L’assorbe, lo sente, si fa abitare, cammina liminare al sacro: questa è la sua peculiarità, quella del viaggiatore consapevole di appartenere a patrie senza più margine, laddove cogliere le forme è l’impresa di un moderno Prometèo, colui che rischia le catene degli Dei.
Tra quelle patrie, battute dal vento dell’autenticità, Giuseppe Prinzi non poteva che incontrare Cézanne, quasi a seguirne la scia in un impossibile “non-finito” saturo di volume, talmente gravido da lasciare la tela per proiettarsi nello spazio dell’avventura plastica, anche qui con la pregnanza del ricordo ancestrale, di quell’originario che conserva il mistero della parola, che nasconde, rivelandolo, il nomos della forma diveniente, immersa in una natura forse perduta per sempre.
Ed è quel ricordo, dell’accoglienza armoniosa tra gli essenti e la natura, a fornire di suggestioni già vissute lo sguardo di Prinzi, privilegiato viaggiatore negli anfratti del tempo, attraverso i quali può vedere quel che già venne visto, e intuire la monumentalità della colonna e del tempio e dell’uomo, colui che non creava ma che era partecipe del racconto.
Quel richiamo alla natura, lo sfondo, immutabile, che “nessun uomo e nessun Dio fece”[2], è la ragione più profonda del segno così netto e solido e del linguaggio partecipe e del colore vivido, capaci di essere espressione di verità nel volume come sulla tela: come potrebbe essere altrimenti?
Mai, in Prinzi, si registra una nota di ambiguità, un’incertezza, il senso di un’astrazione come estraneità rispetto al reale.
Mai, in Prinzi, si registra una nota di ambiguità, un’incertezza, il senso di un’astrazione come estraneità rispetto al reale.
No, qui ci si trova di fronte al sentimento del contemporaneo più vicino alla vera qualità della ricerca interiore di un cosmo, di un ordine che salda in un “unicum” il passato e il futuro.
Non è l’arte contemporanea dell’artista siciliano quella di un indistinto scivolamento nel nulla, ma proiezione fenomenica del soprasensibile, di un richiamo verso l’inaccessibile, di un’espressione che necessariamente, come in Cézanne, riduce lo sguardo alla visione “im-mediata”, primaria, sfuggente, essenziale.
Superando e interpretando quest’essenzialità nella luce di una traccia che risale fino al Picasso più efficace e al Modigliani più icastico, fino al Boccioni più ardito, Prinzi, “homo-artifex viator”, transita febbrilmente dalla tela all’espressione plastica, fino alla sintesi della superficie ceramica, che egli sente e tratta nel verso di un “senza fine” che fa mondo alle sue figure.
Immagini che riverberano, nella loro essenzialità, la traccia di un’avvertita sensibilità rivolta al mistero dell’uomo, sulla natura molteplice dell’umano, sull’acuta differenza tra il maschile e il femminile eppure vissuta come duplicità che ci appartiene e ci definisce.
Come “viator” mai placato nella sua ricerca, vede il sentimento e la ragione come insieme, come inscindibile: ma anche come forze lacerate e laceranti, sempre in luce, mai nascoste, limpide nello sguardo che osserva e si osserva, in un incontro liberato da ogni vincolo che non sia l’emozione di una lunga attesa, di un silenzio vibrante, di una presenza in attesa paziente e fremente, come in un’ombra necessaria.
Le sue immagini, le sue forme, raccontano ciò che siamo, quel che siamo stati, tutto ciò che resterà quando saremo: il tempo è la loro essenza, quel che le definisce in un eterno spazio geometrico.
Ed è qui, in quest’intervallo del tempo, vissuto con ardimento d’artista, che nasce un’idea di spazio liberato per coloro che osservano, uno spazio per il quale vale la definizione di Heidegger:
Ed è qui, in quest’intervallo del tempo, vissuto con ardimento d’artista, che nasce un’idea di spazio liberato per coloro che osservano, uno spazio per il quale vale la definizione di Heidegger:
«…Noi lo chiamiamo anche “lo spazio libero” (das Aufgeräumte). D’ora in avanti pensiamo quest’espressione in senso rigoroso. Lo spazio libero è liberato, diradato, illuminato e ordinato nella sua spazialità. È solo il sereno, lo spazio libero, che può aprire ad altro lo spazio che sia per esso il luogo adeguato.»[3]Così, Giuseppe Prinzi, ci accompagna oltre la soglia del soprasensibile, oltre le mille patrie, in un universo rimasto precluso pur sfiorandoci: dono spontaneo, generoso, coraggioso.
È un oltre che corre il rischio dell’abisso, del sacro e del tremendo, nel quale egli si addentra e infine manifesta l’autenticità del suo linguaggio visuale, capace di essere riflesso della parola originaria, di quell’ultimo approdo negato al pensiero razionale.
Intuendo, come l’ultimo Prometèo, quanto l’uomo abiti l’ombra di quelle immagini, icone di parole sospese.
Intuendo, come l’ultimo Prometèo, quanto l’uomo abiti l’ombra di quelle immagini, icone di parole sospese.
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[2] Citazione da “Il Prometèo incatenato”, tragedia attribuita ad Eschilo e probabilmente rappresentata per la prima volta nel 460 a.C.
[3] M. Heidegger, “La poesia di Hölderlin”, Milano, Adelphi, 1988, pp. 18-19