L'Italia e i nodi al pettine


Sull'onda dell'entusiasmo per il soddisfacente confronto europeo sul "recovery found" della scorsa primavera-estate, il governo italiano, condotto da un sempre più navigato Giuseppe Conte, ha trascorso la stagione calda in un mood immemore di tutte le criticità emerse durante la fase più acuta della pandemia da Covid-19. Adesso, in autunno, mentre si teme la consistenza della seconda ondata, i nodi di un disastro annunciato vengono al pettine e ricominciano le fibrillazioni sui soliti temi e con le solite promesse retoriche, nel teatro dei finti partiti, delle finte maggioranze, delle finte opposizioni e della finta politica 

L'Italia è una nave che imbarca acqua da falle diffuse che nessuno vuole vedere: basta chiudere le porte stagne dei locali allagati, mentre la linea di galleggiamento man mano si riduce.
Vediamo quali sono queste falle, alcuni di questi nodi gordiani che solo la spada di Alessandro Magno potrebbe risolvere.

Sanità in affanno.

L'emergenza pandemica ha segnalato le prime insufficienze nel sistema sanitario, inadeguato ad una situazione di emergenza tanto che, ormai dovrebbe essere patrimonio consapevole di ogni cittadino, il famigerato lockdown è stato diffuso a livello nazionale per prevenire una disastrosa situazione di contagio nel centro-sud, laddove la sanità è molto al di sotto di standard adeguati anche alla gestione ordinaria.
Per chiunque conosca le tecniche dell'organizzazione come me, che me ne sono occupato per un buon ventennio, è chiaro cosa si sarebbe dovuto fare: centri Covid riservati solo ai malati, dotati di attrezzature e personale specializzato, impiantati in ogni regione secondo un criterio di densità della popolazione e presso i quali strutturare anche laboratori e centri di ricerca clinica, sezioni d'analisi statistica e di gestione del tracciamento. Si poteva fare, con uno sforzo considerevole di uomini e di mezzi, certo. Lo si poteva fare anche contando sui fondi del MES e pianificandone l'utilizzo mediante standard. Lo si poteva fare anche riorganizzando i medici di famiglia, favorendone l'associazione in gruppi capaci di gestire anche ambulatori complessi per la diagnostica di base. E per questa via seguire un criterio di gestione del sistema sanitario che avrebbe alleggerito gli ospedali esistenti, ad oggi costretti a rinviare "sine die" la cura di patologie altrettanto gravi e ormai inghiottiti da un'ordinaria confusione, della quale sono plasticamente chiare le conseguenze quando ci si reca in un pronto soccorso.

Tribunali e servizi pubblici.

Si adotta la politica del rinvio, come se già il mare magnum di cause pendenti non avesse superato da decenni il livello di guardia. Si tratta di una condanna preventiva: non si è sempre, a ben ragione, proclamato fallimentare quel modello di giustizia che protrae la decisione lungo un calvario che dura anni e anni? Dunque, adesso la situazione peggiora nella rassegnazione generale.
Qui, per carità, evito di parlare del sistema carcerario, indissolubilmente connesso alla scassata macchina giudiziaria. E non affronto neanche il delicato problema della riforma della magistratura e della sua autonomia, questioni che investono lo stato di diritto nel profondo delle sue radici. 
Mi tengo saldo e faccio un cenno all'amministrazione pubblica nella quale, di questi tempi, la regola dello "smart working" è applicata a chiunque per protezione sindacale: anche in questo caso, i cittadini registrano disservizi e tempi biblici, mentre in uno Stato che abbia a cuore il benessere generale la macchina pubblica dovrebbe risultare la prima per efficacia ed efficienza. 
Senza di essa tutto si rallenta fino a fermarsi. 
Infatti, l'Italia è ferma da decenni, in ogni settore e specialmente in quelli produttivi, letteralmente fiaccata da tomi indigeribili di leggi partorite da menti contorte. 
Un tormento senza fine imbevuto di un normativismo impazzito e senza più "ratio". 
Una "buropazzia" che scantona nel grottesco.

Autonomie regionali ed enti locali.

Cadono le braccia. 
Le autonomie regionali nascono con l'ambizione di istituire competenze di gestione le quali, in ragione del decentramento territoriale, avrebbero dovuto rendere più efficace e pronta l'azione di governo, un governo delle specificità ambientali, produttive, culturali, amministrative, sanitarie, che ogni regione rappresenta se non altro sul piano della conoscenza e della relativa competenza. 
Questo modello è fallito fin dal suo nascere perché non si è costituito nella dimensione federale della responsabilità di prelievo e impiego diretto delle risorse, ma come moltiplicazione e distribuzione di poteri delegati per i quali il governo centrale è distributore di risorse, tanto è vero che si è dovuta elevare al rango istituzionale la conferenza delle regioni per tentare almeno di coordinare il flusso degli stanziamenti occorrenti al funzionamento delle deleghe, alcune molto pesanti come la sanità. Le regioni diventano nel giro di pochi anni dal loro avvio, nel 1970, strutture di potere che decidono come e quanto spendere, tanto a pagare è lo Stato centrale. Così si sono formati deficit che hanno compromesso proprio un comparto molto importante come il sistema sanitario finito fuori controllo con la gran parte delle regioni meridionali affidate a commissari "ragionieri" e impreparati a rendere proficui i risparmi.
Le conseguenze sono state rese lampanti dalla pandemia. 
Naturalmente, i tentativi di riforma, avvenuti negli anni passati, hanno solo "imbruttito" la Costituzione modificando il Titolo V in un linguaggio indescrivibile, da fare impallidire i deputati che stilarono, nell'assemblea costituente del 1946-48, la nostra carta dei principi, rendendo peraltro ancora più critica la situazione: sempre l'emergenza pandemica ha dato la stura a rivendicazioni che mal si conciliano con l'impianto normativo. 
Effetto finale? 
Il caos. 
Da tempo si è a conoscenza di quanto occorra intervenire radicalmente: o si fa con coraggio retromarcia e si chiudono questi baracconi, oppure, con altrettanto coraggio, si mette mano ad una repubblica federale, sul modello tedesco, attribuendo precise responsabilità e autonomia fiscale su poche ma inviolabili materie. In questo secondo caso - ma forse anche nel primo - occorrerà, a monte, riformare il bicameralismo perfetto - per modo di dire - costituendo il Senato in assemblea delle regioni per ogni funzione di coordinamento tra di esse. 
Raggiunto quest'obiettivo, le singole assemblee regionali non avrebbero ragione di esistere. E sarebbe un'ottima cosa, a prescindere. 
Più difficile accorparle in macro-regioni. Ma bisogna accontentarsi.
Medesimo ragionamento vale per gli enti locali, i Comuni: qui invece, l'accorpamento dovrebbe essere la regola anche solo per ragioni di efficienza economica e massa critica nella gestione di servizi complessi, con le amministrazioni locali in dissesto prolungato ormai da decenni. La faccenda è più seria di quanto si pensi perché i comuni, anche quelli più piccoli, si occupano di materie divenute nel tempo montagne insormontabili: dall'erogazione delle risorse idriche alla tutela del territorio e dei centri storici, dai servizi d'anagrafe alla manutenzione di strade e opere di urbanizzazione primaria e secondaria, dai servizi sociali alle autorizzazioni edilizie e giù con un lungo elenco di deleghe dirette e indirette. 
Insomma, una moltiplicazione di poteri che rende farraginosa la macchina disastrata del sistema pubblico dal centro alla periferia, senza soluzione di continuità. 
E senza una speranza di riforma. 
Con le nostre città sempre più degradate oltre la decenza.

Fiscalità e sistema produttivo.

Altro nodo intricato.
Enorme problema, fondamentale nel senso che rappresenta davvero le fondamenta della vita di una comunità nazionale. 
In generale, il fisco assorbe risorse che dal centro si riversano in periferia, verso Regioni e Comuni, con l'effetto di generare flussi di spesa fuori controllo o malamente utilizzati. Il resto finanzia una spesa pubblica incancrenita intorno a mille miliardi di euro che produce sistematicamente deficit in un enorme accumulo di interessi sul debito finito fuori controllo specialmente con la pandemia. 
Lo Stato, peraltro, è debitore di una cifra astronomica verso le imprese che sono, naturalmente, la struttura portante del sistema. Un reticolo diffusissimo di piccole e medie imprese che assicurano i flussi necessari a tenere in piedi il comparto pubblico, con relativi stipendi e pensioni. 
Perchè questo reticolo non crolla dopo anni di afflizione dovuta alla "buropazzia", alla giustizia infernale e ad un fisco iniquo che erode tempo e risorse in misura ingente e non più tollerabile? 
Perchè si tratta di una rete costituita da piccole realtà produttive, flessibile, adattabile, generalmente impegnata in attività produttive a bassa specializzazione, spesso basata su nuclei familiari estesi e su clientele che assicurano risorse e manodopera. 
Ma è, ormai, pura sopravvivenza che nasconde l'inconsistenza, la mancanza di prospettive, l'assenza di innovazione da ricerca e sviluppo, l'inadeguatezza rispetto alle nuove e sempre più crescenti pratiche di consumo.
A catena, se crolla questo sistema di imprese, viene giù, pezzo dopo pezzo, lo Stato.
Tutti noi.
Per questa ragione, la tendenza al dissolvimento deve essere invertita.

Scuola, formazione e università.

Ultimo paragrafo, ma non ultimo, quello dell'istruzione.
Risulta evidente quanto risenta degli effetti di burocrazia e tecnicismi organizzativi insensati che, anche sul piano strettamente lessicale, hanno trasformato l'insegnamento in erogazione, l'educazione, l'antica pratica dell'ex-ducere, in semplicistica, banalissima informazione, l'attività di studio in programma pedissequo. 
Risultato: i contenuti del sistema d'istruzione non formano più giovani in grado di assumere una funzione portante nella società, ma quando va loro bene, individui privi di visione, limitati, i quali, forti di appoggi clientelari, invadono il comparto pubblico apportando il peso della loro impreparazione pur raggiungendo posizioni apicali, mentre se va loro male, sono intruppati in attività di bassa manovalanza.
Da questo deficit educativo discende la carenza di personale specializzato a tutti i livelli, richiesto da quelle imprese, sempre troppo poche, che hanno la fortuna di essere attive in settori potenzialmente espansivi.
La formazione affidata alle regioni, ovviamente, è fallita da anni oppure rimane in stato delirante o comatoso.
Mentre se ci si sposta nel mondo dell'università e della ricerca, le criticità già raccontate si acuiscono: è a questo livello che il processo educativo dovrebbe sfociare nei talenti, che ovviamente esistono e meriterebbero tutta l'attenzione possibile ma che, al contrario, latitano per decenni nella precarietà di attività di ricerca mal pagate e mal finanziate.
Così, il mondo universitario, davvero importante negli altri Paesi in quanto vissuto come punto di riferimento d'eccellenze nelle più varie branche del sapere, in Italia rimane ai margini, non fa sistema e non è più nemmeno libera e autonoma "universitas": le mancano i fondi necessari, ha perso autorevolezza, ha anteposto le carriere alla ricerca pura e allo sviluppo estremo della conoscenza, fucina del progresso.
L'Università italiana rimane accademia, appesantita da incrostazioni ataviche che riducono al nulla lo spazio per quelle nuove leve in grado, almeno per ipotesi, d'infondere vitale freschezza a istituzioni ingessate.
E quindi, niente classe dirigente all'altezza delle sfide del presente. E del futuro.


Tutto si tiene.
Mi pare si possa fare quest'affermazione.
Anche solo a prendere a riferimento le criticità associate agli argomenti dei diversi paragrafi, si scorgono le saldature che collegano strettamente le sfere socio-economiche e politico-organizzative del nostro Paese. 
Non è una situazione originale: l'intero occidente si presenta sotto le insegne di questo modello. 
E in ogni Paese il modello presenta incrinature, punti di lesione, di fissurazione. 
Ma non le voragini del paradigma italiano.
Il paradosso è che l'azione pubblica avrebbe tutti i programmi e gli strumenti per intervenire, invertire la tendenza, trasformare e mettere il Paese in una scia virtuosa.
Ma c'è anche un altro paradosso: che questa "grande riforma" occorre realizzarla in un solo colpo.
Per evitare che si producano effetti di rallentamento indotti dal peso di quei settori rimasti intonsi.
Ma soprattutto, per imprimere uno shock salutare all'intera rete sociale, liberare energie, sburocratizzare, alleggerire, semplificare.
Non tutto è davvero in rovina. E questo nostro è un Paese che conserva enormi risorse umane. 
Da qui, da un respiro di libertà che rompa questa cappa soffocante, arriverebbe l'innovazione e la crescita, potenzialmente molto elevate in Italia.
Basterebbe cominciare, seriamente, ed essere risoluti.
Qualcuno obietterebbe: con chi? Con questa classe dirigente? Ma va là... E' dagli anni '70 del secolo scorso che l'Italia è in crisi, una lenta inesorabile crisi.
Già. 
Ma senza darsi una speranza, a cinquant'anni suonati, di cosa vuoi vivere?

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