'Tu chiudi, tu paghi'. Il federalismo imperfetto
L'emergenza pandemica produce i suoi effetti anche sulle strutture dello Stato, con le Regioni che rivendicano ed attuano modelli di autonomia che ormai è percepita come elemento crescente e ineludibile, lasciandone tuttavia emergere le criticità ataviche: l'approdo dei prossimi anni sarà un sistema federale compiuto?
Si assiste in questi giorni di fine ottobre ad un rilancio del modello regionalista italiano, investito dall'emergenza da Covid-19 innanzitutto sul tema dell'organizzazione sanitaria necessaria a fronteggiare la cosiddetta "seconda ondata" della pandemia.
I presidenti di regione sono da tempo divenuti il riferimento imprescindibile nelle attività del governo centrale, non solo per le formali prerogative normative in capo alle regioni, ma per il rilievo politico che hanno assunto e per la percezione che si va diffondendo tra i cittadini. Non si può affermare che questa percezione sia sempre gradita dall'opinione pubblica, ma di fatto si è diffusa almeno in termini di "potestas" se non riconosciuta "auctoritas".
Con qualche eccezione che conferma la regola: Zaia in Veneto, De Luca in Campania, Bonaccini in Emilia Romagna, punte avanzate di un parterre variegato, emerso soprattutto durante questa crisi sulla quale i cittadini hanno misurato i comportamenti e decretato, laddove si è andati alle urne, riconoscimenti assai elevati.
L'elezione diretta
Non si tratta di una novità per l'Italia: già negli anni '90, la riforma che introdusse l'elezione diretta dei sindaci, lasciò emergere una nuova classe di amministratori locali ammantati da improvvisa notorietà, alcuni dei quali seppero assumere ruoli di leadership.
Così, anche per i presidenti di regione, l'elezione diretta è valsa ad accrescimento dei poteri nelle percezione diffusa, ben oltre le effettive prerogative.
Questo è, nella comunicazione politica, il segnale chiaro di un'attrattività verso una formula elettorale che lascia transitare la sua efficacia anche sull'istituzione rappresentata, con i pregi e i difetti di questa.
Autonomia sì, ma non fino in fondo
Qualunque sia la percezione popolare, tuttavia, il cuore del problema nel sistema delle autonomie regionali italiane è l'essere strutture decentrate che esercitano poteri senza portafoglio: le loro politiche di gestione dipendono dai flussi del governo centrale e dalle scelte di mediazione composte nella conferenza delle regioni. E la politica vera, questo è un concetto radicato nella storia, la può fare solo chi tiene i cordoni della borsa.
La seconda ondata da Covid-19
De Luca, il presidente della Regione Campania, si presenta in Tv per tenere un drammatico discorso sull'allarme da pandemia: la seconda ondata fa molta paura, il sistema sanitario regionale è vicino al collasso e la scelta inevitabile, prima che si verifichi la peggiore delle evenienze, è un lockdown generale.
Che lui intende adottare.
Ma il presidente chiede contemporaneamente l'intervento del governo centrale per controllare il territorio con personale delle forze dell'ordine o delle forze armate. E invoca anche risorse economiche per il ristoro delle attività produttive costrette alla chiusura. Neanche il tempo di lasciare alle cronache la sua filippica che una moltitudine di cittadini inferociti, danno vita ad una manifestazione scomposta al grido: "Tu chiudi. Tu paghi".
Si tratta di un segno molto netto che afferma due cose essenziali: i cittadini conoscono il sistema delle regioni italiane e sono consapevoli che la difesa dell'autonomia passa per il tema della responsabilità fiscale, tema reso complesso da una stratificazione inverosimile di norme che legano le regioni al governo centrale, le diverse deleghe ai vari ministeri e così via.
Insomma, si ha percezione di un potere e di un ruolo crescente ma anche dell'indispensabile presenza del governo centrale senza il quale l'autonomia si manifesta come una scatola vuota da riempire.
Responsabilità piena o caos
Il punto è questo: le Regioni possiedono deleghe pesanti, dalla sanità ai trasporti pubblici, dall'istruzione all'ambiente, dal turismo alle attività produttive, solo per citare le più significative in questa congerie pandemica.
Qui si gioca il contrasto alla diffusione del Covid-19 e all'organizzazione complessa che passa dalla sanità ai trasporti fino alle imprese costrette alla serrata.
Ed è un gioco al massacro che rende il Paese fragile e instabile, caratterizzato da politiche di gestione inefficienti e inefficaci, sulle quali si frange l'onda della disperazione degli imprenditori e dei lavoratori del settore privato, delle piccole come delle grandi imprese.
Una mediazione che produce effetti ambigui e controversi, tra Regioni virtuose che riescono a far funzionare la macchina dell'amministrazione e altre che si ritrovano indietro.
Risultato: il caos di un'Italia che agisce a due o tre velocità, con il centro-sud irrimediabilmente penalizzato e un centro-nord che mostra punte d'eccellenza. I
l non più sopportabile spettacolo di un Paese profondamente diviso.
Chiusure e restrizioni: l'effetto di debolezze ataviche
D'altronde, non può sfuggire che il problema delle restrizioni e delle chiusure, il lockdown subito la primavera scorsa e le nuove contestate disposizioni dell'ultimo Dpcm del 25 ottobre, è direttamente connesso con la fragilità dei sistemi sanitari regionali, alcuni in grado di assorbire la pressione della popolazione bisognosa di cure, altri che da decenni non possiedono strutture adeguate a garantire l'ordinaria gestione, figuriamoci l'emergenza.
Di qui la scelta di misure drastiche per evitare il disastro.
D'altronde, è il problema sottostante al ragionamento di De Luca per la Campania.
La questione, dunque, è di gestione e quindi di "manico" politico.
Che manca.
Il coraggio di cambiare
Il passo è serio e molto pesante: cambiare il sistema delle autonomie regionali riducendo deleghe e competenze decentrate e assegnando poche ma esclusive materie con relativo prelievo fiscale diretto; oppure realizzare un sistema federali sul modello tedesco con pochi ma netti poteri a livello centrale e una reale autonomia delle Regioni, in modo da costituire le premesse per un chiarimento sulle responsabilità e sulle possibilità di governo.
Nel frattempo, l'opinione pubblica e il sistema produttivo assistono sconcertati al rimpallo tragico di attribuzioni e di oneri, mentre la comunicazione giornalistica lascia emergere una critica montante che investe la politica e il suo peggiore difetto: centrare la comunicazione sull'emergenza e non sul problema di fondo, perdendosi nella banalità di un linguaggio inadeguato rispetto alle esigenze, enormi, di declinare concrete proposte di riforma dello Stato.
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