Lo scarto silenzioso della pittura

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Tra fine del ‘200 e i primi del ‘300 accadde qualcosa d’inaudito nell’opera d’arte pittorica. Ma il cambiamento fu lento, graduale e certamente mai uniforme. In alcuni casi lo si avvertì appena: segno che le forme d’espressione rimangono generalmente ancorate alla temperie culturale fin quando non ne accompagnino il mutamento al ritmo di un passo cadenzato, con gli artisti che si seguono l’un altro, imitano, interpretano, emulano spingendosi sempre più coraggiosamente in avanti. Giotto non fu il più audace, fu il più giovane. E la vera origine bisogna cercarla nella mistica francescana.

Alla fine del XIV secolo, nel “Libro dell’Arte”, Cennino Cennini scriveva riguardo alla pittura che per essa: 
«conviene avere fantasia e operazione di mano, di trovare cose non vedute, cacciandosi sotto ombra di naturali, e fermarle con la mano, dando a dimostrare quello che non è, sia. E con ragione merita metterla a sedere in secondo grado alla scienza e coronarla di poesia»
Giotto era già deceduto nel 1337, lasciando tuttavia in eredità l’apertura alla terza dimensione anche sulla tela e con essa le infinite possibilità della narrazione, le ambientazioni naturalistiche, l’espressività che connota la psicologia delle figure ritratte, la magia della luce attraverso i colori. 
E qualcosa di più: il ruolo della pittura quale strumento principe di nuove forme di visione. 
Detta così sembra semplice.


Eppure, la questione non è solo quella di dover registrare il processo di maturazione dell’atto pittorico.
Il problema risiede nel perché la pittura sia rimasta a lungo relegata in una manieristica, ossessiva ripetizione del modello greco o costantinopolitano che sia. 
Forse la mancanza di modelli alternativi? 
Forse perché le arti plastiche colgono le opportunità del tutto tondo ovvero dell’altorilievo che colori e pennelli non possono equiparare?
Gli impressionisti di fine ‘800 si rivelarono quando vennero in campo innovazioni essenziali alla loro pittura en plain air come i colori conservati in tubetti di latta o i pennelli con le bocchette metalliche.
Cosa accadde per i vari Giunta Pisano, Coppo di Marcovaldo, Cimabue, Pietro Cavallini, Giotto e Duccio di Buoninsegna perché si destassero spalancando all’arte inconsuete feconde strade? 
Proprio nel momento in cui i modelli bizantini, dopo la IV crociata del 1204 e la conquista di Costantinopoli, proliferarono in Europa occidentale?


Si sostiene che la pittura sia più economica e più rapida da realizzare. 
È una lettura che possiede una sua giustificazione anche se è connotata da un evidente materialismo storico.
Il punto è che esiste un riflesso culturale legato all’opera pittorica, una dimensione nella quale il dipinto è soggetto-oggetto, come nel caso delle icone: modificare questa concezione, diffusa e consolidata, è atto di un riformismo radicale che non poteva essere accolto facilmente.
Ma venne accolto. 
E occorre capirne la ragione.  
La pittura nuova nasce quando gradualmente le generazioni dell’urbanesimo italiano maturano paradigmi differenti attribuendo alla figurazione funzioni diverse dal passato, quando si accorgono che la scultura ha una potenza narrativa insufficiente a descrivere le novità della rivoluzione commerciale e il cambiamento dei costumi sociali: sul supporto bidimensionale la descrizione del mondo e dei suoi contenuti è molto più agevole, divenendo soprattutto una questione tecnica prima che stilistica.


Le sensibilità religiose sono mediate dagli Ordini mendicanti tra i quali spicca la figura di San Francesco che non a caso diverrà uno dei soggetti protagonisti dell’espressione pittorica: sul santo di Assisi e sulla sua imprescindibile importanza mi riservo l'approfondimento finale.   
Si afferma l’uso della “tavola” dipinta che può essere rimossa e funge anche da icona per le processioni.
Rimane, inizialmente, una ristretta casistica di temi: la crocifissione, la Madonna col Bambino, le figure dei santi. 
Mentre il Cristo crocifisso transita dall’essere triumphans al diventare patiens, la Vergine in trono, che simboleggia l’Ecclesia e tiene in braccio Gesù Bambino, comincia ad assumere in volto un’espressione carica di umano sentimento e di afflato materno. 


La prospettiva è ancora fragile, se esiste è una prospettiva inversa, che colloca il punto di fuga verso lo spettatore come per accoglierlo entro la scena rappresentata.
Tuttavia, è Cimabue, anche sul tema della Madonna in trono, la cosiddetta Maestà, a fare da spartiacque con la “Madonna del Louvre” del 1280 circa.
In questa scia, si colloca Duccio di Buoninsegna (vissuto all’incirca tra il 1255 ed il 1319), sommo esponente della scuola pittorica senese, che cinque anni dopo Cimabue dipinge la Madonna Rucellai, sempre su tavola, oggi conservata a Firenze nella Galleria degli Uffizi.
La pala venne commissionata a Duccio per la cappella della compagnia dei Laudesi in Santa Maria Novella a Firenze. 
Questo dato è interessante: è la conferma dell’adorazione di cui erano oggetto simili iconografie e della necessità che i pittori fossero stilisticamente aderenti a un risultato atteso dai committenti. 
Come a dire che aleggiava, nel campo pittorico, una rigida definizione che riguarda il tema e il modello di riferimento. 
Dunque, il trapasso verso una nuova stagione della figurazione si presentava più farraginoso e più lento.
Gli artisti, in questo solco, interagiscono protendendosi in avanti un passo alla volta. 
Duccio, infatti, con la Maestà Rucellai (nome di antica famiglia fiorentina) introduce un tono patetico più evidente ma senza far perdere compostezza alla figura della Vergine: le mani di questa cingono con vera tenerezza materna il corpo di Gesù Bambino; mentre quest’ultimo, avvolto in fasce color porpora, è mollemente adagiato tra le braccia della madre ed è meno composto, come ci si aspetta da un fanciullino. 


Anche se con la mano destra, come esige la tradizione, compie il gesto della benedizione. 
Il manto della Vergine non lascia trasparire le linee anatomiche ma è trattato con accurata attenzione alla proposizione veristica – sono ormai dimenticate le ageminature bizantine - assecondata dall’orlo dorato che lo percorre per tutta la lunghezza sostituendosi alle ricercate definizioni del panneggio presenti invece in Cimabue. 
Infine raccordandosi in basso attraverso volute di convincente naturalismo. 
Il trono, finemente decorato, spicca verso l’alto tradendo l’inclinazione gotica dell’autore, confermata dalla presenza di archetti lobati, rifiniti da pinnacoli, cui aderisce in più di un tratto, un tendaggio riccamente decorato e retto sul bordo da due angeli, a sostituire lo schienale del trono e coronare con un gesto protettivo le sacre figure. 
Duccio non sembra curarsi del problema della profondità, ma anche in questo caso si tratta di aderenza al modello bizantino (che rimarrà, per larghi tratti, tra le caratteristiche della figurazione narrativa gotica) ben presente nei colori brillanti e nelle preziose decorazioni ma anche nelle figure dei sei angeli, tre per ogni lato, che in sequenza ascendente, collocati in uno spazio ideale ed etereo, reggono il trono come coeve e luminose miniature la cui funzione ornamentale sembra essere quella realmente prescelta dall’artista.
Ecco, Duccio è uno di quelli che non compì un salto d’epoca: certamente comprese, avvertì il cambiamento, lo ereditò per segni e modelli, se ne fece interprete, a suo modo, ad esempio collocando il trono della Madonna in tralice come aveva già fatto Cimabue. 
Fu epigono. 
Divenne precursore.
Ebbe infine degli epigoni. 
Questo è il ciclo, reale, sul quale si forma il mutamento.
Una successione che Giorgio Vasari ne “Le Vite” così interpretò, con magnanimità: 
«Senza dubbio coloro che sono inventori d’alcuna cosa notabile hanno grandissima parte nelle penne di chi scrive l’istorie, e ciò avviene perché sono più osservate e con maggiore maraviglia tenute le prime invenzioni, per lo diletto che seco porta la novità della cosa, che quanti miglioramenti si fanno poi, da qualunque si sia, nelle cose che si riducono all’ultima perfezzione; atteso ché se mai a niuna cosa non si desse principio, non crescerebbono di miglioramento le parti di mezzo e non verrebbe il fine ottimo e di bellezza maravigliosa. Meritò dunque Duccio, pittore sanese e molto stimato, portare il vanto di quelli che dopo lui sono stati molti anni…»
Ora, non si può ignorare l'acceso dibattito su chi fu il primo e quale ruolo si debba attribuire al celebrato Giotto: per anni si è disputato sugli affreschi di Assisi e sulla figura di Pietro Cavallini, maestro della "scuola romana", quale vero precursore della narrativa pittorica italiana.


Si sa, l'incendio e la  scomparsa, nel secondo decennio del XIX secolo, del ciclo di affreschi di Cavallini in San Paolo fuori le mura, ha privato gli storici dell'arte di un modello di confronto stilistico: la presunta datazione tra il settimo e l'ottavo decennio del XIII secolo, sarebbe stata essenziale per porre sul podio più alto l'artista romano scalzando il fiorentino sul gradino inferiore.
Come i mosaici di Santa Maria in Trastevere e gli affreschi di Santa Cecilia farebbero ritenere.
Tuttavia, manca la prova decisiva. 
E il "Maestro di Isacco" tra gli affreschi della basilica superiore di Assisi non costituisce se non dotta congettura.


Così, ci deve "accontentare", tra mille riserve, della "propaganda vasariana" che inverte l'ordine dei fattori e relega Pietro Cavallini a discepolo di Giotto.
Ma qui, la questione si fa davvero sottile.
Fino a incrociare quella relativa all'evoluzione "gotica" del paradigma bizantino, poggiando sulla pittura senese di Duccio oltre che fiorentina di Cimabue, echeggiando l'influenza di Arnolfo di Cambio a Roma (chissà se Giotto fosse al suo seguito o in quella temperie non fosse a Roma per ammirare proprio il Cavallini della basilica di San Paolo), tracciando nuove venature e affluenti che dal Tevere all'Arno e viceversa dovrebbero aver configurato il primato del razionalismo pittorico italiano sulle influenze stilistiche del gotico internazionale.
Ma il tema stilistico è meno seducente del concetto di rappresentazione, quello che è la fonte della trasformazione delle figure iconiche e degli sfondi dorati in figure mondane e in sfondi naturalistici.
Scrivo di figure "mondane" ma dovrei definirle figure in "carne e ossa", a far data dal "Maestro del San Francesco Bardi" - che potrebbe essere Coppo di Marcovaldo - risalente alla metà del Duecento.
Ho fatto cenno alla figura del santo di Assisi.
Ritengo fondata l'idea che il ceppo originario della pittura occidentale debba fare conto sulla mistica francescana, quella narrata nella biografia di Tommaso da Celano che integra la figura di Francesco a quella dell'alter Christus. 
Ovvero, per lo meno, dell'imitatio Christi.
Ma non per declinarne la dimensione divina.
Piuttosto, per risaltarne la caratura umana tale quanto quella di Gesù, il verbo divenuto uomo:
"E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi." - Giovanni, 1.14
La "cristologia" francescana è stata ampiamente emendata nel passaggio dalle biografie del Celano a quella ordinativa di Bonaventura da Bagnoregio, costitutiva, quest'ultima, dei riferimenti ideativi degli affreschi della basilica di Assisi.
Ma quest'aspetto rimane, a mio parere, ancora marginale, epifenomeno del primo, rimarchevole contrasto tra l'immagine sacra, concepita dalla teologia cristiana orientale nella sua imperscrutabilità e la rappresentazione, tutta carica di suggestione salvifica nella conversione terrena, reale e non più ineffabile, che si fa strada seguendo la scia dell'esempio francescano.
Il paradiso è possibile sulla terra, è l'effetto dello svuotamento "kenotico" che proprio il santo di Assisi apparve incarnare: nessun eremitismo ascetico, ma vita vera, sofferenza vera, vita di relazione, gioia vera nell'annuncio della buona novella.
Dunque, è qui che la potenza straordinaria della visione francescana prende corpo e assume, anche nella rappresentazione sacra, il tratto realistico di una fede rinnovata sull'esempio imprescindibile della vita e delle parole di Gesù, in particolare, delle parole tratte dal testo delle beatitudini, il "Discorso della Montagna". 
Ci si dimentica, forse, che la trasformazione della pittura avviene nel contesto della pittura sacra?
Come può darsi mutamento se non nella breccia teologica aperta dal realismo francescano?
Questo è, per me - ma non solo per me - il presupposto, lo scarto silenzioso, della pittura nel Duecento, il Big Bang dal quale scaturisce la pittura occidentale, il distacco dal cristianesimo di matrice orientale e la piena compenetrazione tra la fede e la vita.
Naturalmente, Francesco di Assisi, il santo d'Europa, rimane sullo sfondo, trasfigurato, manipolato, riletto, ripensato, reinterpretato ed edulcorato: nulla del suo esempio, sul piano teologico, rimane.
Eppure, da quel momento in poi, il dipinto perde la sua funzione iconica, il suo esserci come presenza del divino, come atto di preghiera in immagini.
Diventa atto narrativo.
Di esseri umani reali.
Che possono aspirare alla divinità.
La lunga epoca dell'umanesimo s'incaricherà di smentire quest'ottimistica visione.
Ma ormai, quando accadrà, la pittura, senza vincoli di separatezza, avrà già preso la via della modernità.

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