SCIASCIA E IL (SOTTO) GENERE

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Il "giallo" e il romanzo "noir" sono stati a lungo considerati un (sotto) genere rispetto alla letteratura più colta e profonda. Si è trattato di un pregiudizio o di un'attribuzione neutra frutto di una classificazione non particolarmente attenta? Tuttavia, parlarne al passato non risolve la questione. Poichè ancora persiste quell'idea di fondo. Ed io...  No, niente da fare, proprio non va, non ci riesco. Quel “sotto” che precede (…pure tra parentesi…) la parola “genere”, mi angustia. Non posso fare a meno di pensare a quel termine, sembra piazzato lì quasi a farmi un dispetto, uno “spregio” voluto e raffinato. Sì, perché non la penso come lui che, tronfio nelle sue parentesi, altero nel suo precedere ogni altra parola, arrogante nella sua perentorietà, se ne sta indisturbato a disturbare i miei pensieri, a volerli costringere in un punto di vista limitante, becero, provinciale. Beh, sai che c’è, mio caro signor “sottotraparentesi”, che mi hai scocciato! Adesso tenterò di fare qualcosa non solo per levarti di mezzo, ma addirittura per distruggerti scaraventandoti addosso la forza di un pensiero libero, anche della fantasia, dimostrandoti quanto si possa non solo fare a meno di te, ma come sia salutare annientarti. Pensi di no? Allora stai un po’ a sentire e goditi i tuoi ultimi momenti da ingombro inutile.

Voglio occuparmi di Sciascia e dei suoi epigoni. 
Se, dimenticandosi della sua poetica, intensa, rigorosa, ricca di un sostrato di limpida speculazione intellettuale e filosofica, venata di una particolare ironia (maestri Pirandello e Brancati), lo si cita in qualità di scrittore di romanzi gialli, di testi che possono essere accomunati al vasto mondo dello sviluppo del tema investigativo, noir o detective story o poliziesco o crime fiction o crime story o police novel o ancora mystery novel o spy fiction o thriller e chi più ne ha più ne metta, ci ritroviamo d’un tratto uno dei nostri grandi scrittori incasellato nella tanto vituperata letteratura di massa che, da noi in Italia (ma non è così in Inghilterra e in Francia e nemmeno negli Stati Uniti) è considerata, appunto, un (sotto) genere di letteratura.


La classificazione è un valore seriale di orientamento. 
Se inserisco Sciascia nella classificazione di scrittore di romanzi gialli, beh, avverto anch’io un certo disorientamento. 
E non perché una simile cristallizzazione del grande scrittore siciliano lo enuclei in un sotto genere del tutto presunto, ma in ragione del fatto che ogni genere di letteratura debba essere posto sulla medesima linea di dignità. 
Cosa che, con il romanzo giallo, in Italia, per molto tempo non è avvenuta. 
Esiste solo una buona o una cattiva letteratura e, in ogni forma letteraria, si assiste alla possibilità che compaiano testi aderenti all’una o all’altra fattispecie.
E va anche ricordato come le “irregolarità” nello schema di genere abbiano, nella gran parte dei casi, dato vita a modelli letterari di notevolissimo spessore. 
Questo è il caso di Sciascia, nella limpida evidenza di una concezione applicata ad una particolare struttura e caratterizzata da uno stile molto ben costruito intorno a quella struttura. 
Quelli di Sciascia potrei definirli “romanzi della realtà complessa” sostituendo con quest’accezione, banale ed utile solo dal punto di vista nominale, il termine “gialli”, proponendo quindi una diversa classificazione del genere ed una nuova collocazione che, a mio parere, è tutta dentro la nostra tradizione letteraria. 
Quindi, pari dignità ed anche qualcosa di più. 


D’altronde, a me sembra palese l’incompiutezza del termine “giallo”. 
La ricchezza di sinonimi che ho poco sopra elencati, fornisce prova ampia di una certa difficoltà a determinare, con esattezza, un genere piuttosto articolato nelle sue possibilità di declinazione realizzativa, con richiami ora ad atmosfere e ambienti, ora a trame misteriose, ora a intrighi, sempre intorno ad un fatto delittuoso e con lucida ricerca, analisi delle vicende, intrecci complessi, profonde introspezioni psicologiche dei personaggi, sensibilità verso processi sociali, affermazione di valori, echi di storia, di politica, di filosofia, di riti, sovrapposizioni tra realismo e lirismo, potenza semantica del linguaggio, tra linearità e turbini descrittive. 


Per questa ragione mi riferivo poc’anzi alla nostra tradizione che, se prima di Sciascia appare povera di esempi relativi al genere in questione (se si eccettuano Gadda e Buzzati i quali, tuttavia, non hanno proseguito su quella scia), non si può ritenere che esso sia stato istituito dallo stesso Sciascia in profonda solitudine. 


Questo è un fattore chiave.
Al di là di Borges che è certamente un modello di riferimento, l’autore siciliano amò molto (e lo si sente nei suoi romanzi) sia Pirandello che Brancati, scrittori di assoluto prestigio e radicamento nella tradizione letteraria italiana. 
In realtà, Sciascia usò il genere “giallo” come strumento di narrazione che nel suo più evidente contenuto non guarda solo al disvelamento del mistero ma al percorso razionale di comprensione della verità, nelle sue mille sfaccettature e contraddizioni. 
Attraverso la comprensione della verità, egli narra la realtà nel suo apparire come nei suoi anfratti nascosti. 
E la verità disvelata è un atto di letteratura: è la letteratura!
Mi è rimasta impressa una considerazione di Italo Calvino che, nel novembre 1965 così
scriveva a Sciascia a proposito di “A ciascuno il suo”: 

«Ho letto il tuo giallo che non è un giallo, con la passione con cui si leggono i gialli, e in più con il divertimento di vedere come il giallo viene smontato, anzi come viene dimostrata l’impossibilità del romanzo giallo nell’ambiente siciliano»

Ora, anche solo a voler fare una valutazione banale su quanto scriveva Calvino, si deve affermare che Sciascia e, se vogliamo, i suoi continuatori, eredi o coloro semplicemente ed autonomamente “giallisti”, usino tutti la complessità del reale, l’intreccio misterioso, perché questo possiede una struttura indefinitamente deformabile, adattabile alla poetica di qualunque racconto, capace di dare forma particolare, senza seguire uno schema fisso, alla descrizione di innumerevoli figure e personaggi, di scavare dentro la personalità dell’individuo come di evidenziare i meccanismi psico-sociali di uno scenario, di un contesto, di una dimensione temporale e spaziale, focalizzando sui contenuti storico-culturali che guidano una comunità, astraendone tratti caratteristici, abissi di solitudine o sconfortante superficialità, ed anche ingiustizie, orrori, irrazionalità, meschinità, ironica visione e persino tratti lirici e contestuale adesione a una capacità espressiva del reale.
Insomma, dovrebbe essere ormai chiaro - ed evitarmi ulteriori ridondanze – che si tratti di un modo intenso di fare letteratura.


A volere essere più attenti, nelle parole di Calvino c’è, sotteso, il richiamo ad un procedimento maieutico che, nell’applicarsi a tesi ed antitesi, riesce a delineare il valore proprio per mezzo della trama misteriosa, proprio per mezzo del suo aderire, solcandole, alle incrostazioni descrittive di una realtà sociale molto complessa e ricchissima di sfumature, tra ironia amara e denuncia morale. 
Tutti i nostri principali giallisti seguono il solco lasciato da Sciascia. 
Realizzando, per questa via, un genere condito di alti, a volte altissimi, valori di contenuto. 
Se si considera quello del romanzo giallo come il tema del sovvertimento dei fatti ordinari, della ricerca di verità dietro le apparenze del reale, della luce che all’improvviso riempie un ambiente vuoto rivelandone le nudità, le miserie o le grandezze e tutti i possibili profili intermedi ed intrecciati delle due antinomie, aprendo il mondo degli uomini a una comprensione diversa di sé, ebbene, non si può non vederne la qualità letteraria, la connotazione di genere letterario dignitosamente uguale a qualunque altro genere. 


Del resto, la tradizione italiana, quando ha deciso di esprimersi facendo leva su questo tipo di racconto, ha mostrato, prima con Sciascia e poi con i grandi di fine novecento (tra tutti Eco e Camilleri, sui quali tornerò più avanti), il volto di una letteratura capace di conquistare i lettori ben oltre i confini nazionali.
Perché, dunque, quest’antico pregiudizio sul romanzo giallo? 
Occorre fare un forte sforzo di sintesi.


In Italia la cattiva fama del romanzo giallo come di molti altri generi letterari (che, per fortuna, hanno comunque trovato modo di affermarsi e di trovare una loro collocazione a dispetto della critica iperuranica) è strettamente legata alla nostra letteratura che per tanto tempo è stata d’accademia, sovvenzionata dai ceti elevati, figlia delle corti e del potere, lirica, aulica, teatrale, mitica e poi, profonda e aderente ai mutati tempi, impegnata, contenuto di un progetto sociale, romanzo storico, romanzo di vita, finalmente libera (ma non in senso assoluto) di raccontare un novecento esaltante per poetiche, stile, strutture. 
Indro Montanelli, celebre giornalista e scrittore, ha sempre sostenuto che alla nostra letteratura nazionale sia mancato il ritmo dell’afflato con il pubblico, che essa sia pervenuta tardi al rapporto con quella dimensione dello scrivere che tenesse conto del lettore, dei suoi gusti, delle sue competenze e del suo livello culturale. 
Questa condizione, dovuta al ritardo con il quale la società di massa è maturata in Italia, ha fatto sì che la letteratura assumesse un aspetto dicotomico, da una parte come espressione d’arte lontana dal volgo e priva di un vero contatto con il lettore medio (la letteratura alta), dall’altra come prodotto/merce, prodotto di consumo (la letteratura bassa). 
Una tara antica, dunque, che si rispecchia nel genere “giallo”. 
In effetti, in Italia è mancata la tradizione del Feuilleton e del romanzo d’appendice che veniva pubblicato a puntate sulla stampa quotidiana: se si pensa a Eugene Sue ed al suo “I misteri di Parigi” degli anni 1842-1843, beh, cosa dire di più. 
Per non parlare di Honorè De Balzac, grande creatore di romanzi a puntate sulla stampa francese. 
E di Conan Doyle con il suo Sherlock Holmes. 
E in Italia? 
Nel 1880, il romanzo “Ben Hur” di Wallace vendeva oltre un milione di copie negli Stati Uniti. 
E in Italia, cosa accadeva? 
Non si debbono confondere i due piani – letteratura alta/letteratura di consumo - ma sradicarli e sottoporli ad interpretazione critica: come ho già avuto modo di dire, esiste una buona e una cattiva letteratura. 
La letteratura di consumo può certamente condurre ad appiattimento culturale e mercificazione superficiale. 
Ma, qui, il tema è ancora un altro, qui occorre considerare che la “testualità” è fondata nella società moderna ed ha fondato le relazioni sociali. 
Questa semplice evidenza, in Italia, anche per ragioni storiche, è stata compresa con molto, e spesso colpevole, ritardo. 
Non è finita qui. 
Vi è un’altra ragione che si interpone tra la “letteratura” ed il “giallo” – come venne in Italia definito prendendo spunto dalle copertine gialle delle prime pubblicazioni di genere introdotte dalla Mondadori negli anni ’30 – una ragione insita nella struttura del romanzo d’investigazione che, ricercando solo nella trama, anzi, nell’intreccio, la sua centralità, lascerebbe fuori, almeno apparentemente, idee, concezioni, profondità di ricerca psicologica e sociale, scenari di vita autentica e di sentimenti, modi d’essere, influenze culturali ed ambientali, etc etc: insomma, privo di una poetica, fantasiosa ricostruzione di un possibile racconto di cronaca riportato sotto l’egida di uno stile asciutto, giornalistico, povero di contenuti sottostanti, in quest’accezione il giallo è equivalso a lettura d’intrattenimento e d’evasione, di second’ordine, poco colta, divertissement ad uso e consumo di lettori da spiaggia. 
Apparentemente, appunto. 
A dispetto del pregiudizio che solo in pochi hanno provato a rompere – tra questi pochi inserisco, come detto, Sciascia, con eccellenti esiti, ma assieme al Gadda del “Pasticciaccio” e al Buzzati di “La boutique del mistero”– è vero che in Italia si è cominciato a scrivere più frequentemente gialli o noir con risultati molto interessanti negli anni ’80 e ’90, testi di notevole valore letterario, instradando il nostro Paese in quel filone di enorme successo che la letteratura di questo genere ha concepito e realizzato a partire dagli Stati Uniti con le opere di Follet o Grisham cui ha fatto da contraltare il nostro indimenticato Faletti, rivelatosi essere un fortunato “caso” di meritato successo internazionale con “Io uccido”.


Mentre negli anni ’80 fu straordinario il successo de “Il nome della Rosa” di Umberto Eco, protagonista del “Gruppo 63”, evidentemente ispirato da quella ricerca intellettuale a realizzare un capolavoro tra il thriller, il saggio e il racconto storico, ibrido che ha continuato a costituire la base dei successivi successi – non si tratta di romanzi gialli in senso stretto - come con “Il pendolo di Foucault” o il “Il cimitero di Praga”. 
Ma, avendolo citato più volte, parlo anche di Camilleri e voglio scriverlo subito prima di volare oltre: che meraviglia i suoi racconti. 
Qualche tempo fa ho letto “La forma dell’acqua”. 
Ho sempre pensato che, al di là dell’ovvio raffronto con Sciascia, a Camilleri appartenga interiormente il Gadda del “Pasticciaccio”.
 

Almeno stilisticamente, c’è un riuscitissimo tentativo di “pastiche” linguistico pur senza giungere alle evoluzioni spettacolari del suo inarrivabile predecessore. 
Forse c’è un’identità tra le due poetiche (la visione di un mondo irrazionale e disdicevole) ma con ben diversi svolgimenti e ben diversi esiti. 
Il riferimento ad Eco e Camilleri mi permette di proporre quell’irregolare visione del tema cui ho accennato all’inizio. 
Di entrare in una dimensione ancora più libera e di sbrigliare la fantasia. 
E di evidenziare, nel solco dei citati due autori, come il pregiudizio atavico del nostro mondo letterario abbia impedito agli autori italiani di afferrare l’ispirazione verso invenzioni che, vista la loro feconda capacità, sarebbero state un puro godimento per i lettori. 
Testi che avrebbero potuto più fortemente accrescere la fama dei nostri autori, permettendo d’inserirli con maggiore efficacia tra le molte produzioni di valore internazionale. 
Intendiamoci, in questo non c’è nulla di demagogico o fintamente patriottico. 
E’ solo una constatazione di fatto, perché mi piace immaginare che prima di Sciascia e ben prima di Camilleri o di Lucarelli o di Fois, quali straordinari esempi sarebbero potuti sgorgare dalla penna del già citato Buzzati, ancora di Gadda, ma anche di Calvino, dello stesso Vittorini, di Pavese o di Brancati: che splendido intreccio di personaggi e storie, che stile accattivante, che applicazioni fantasiose della loro poetica se ciascuno di loro si fosse misurato con il genere, quale grande arricchimento avrebbero apportato al modo di raccontare “nel giallo”. 


Penso anche a Pirandello o alla stessa Elsa Morante in quello che il celebre critico Guido Davico Bonino definì il “suo laboratorio letterario”, o al bravissimo e sfortunato Fenoglio il quale, per di più, sarebbe stato certamente ispirato dalla sua adesione alla cultura anglosassone che non ha avuto “pruderie” elitarie.
Penso anche a Bassani ed alle atmosfere torbide dell’ambiente provinciale. 
Solo fantasia la mia? 
Vediamo.


Nei nostri migliori autori e in quelli che ho citato in modo particolare, non si può negare una blanda ma costante tendenza alla rivelazione di un mistero, a un’origine avvolta nella nebbia, a un epilogo irregolare, in un moto di ricerca che nasconde un avvenimento inspiegabile. 
Basta farci caso: nella gran parte dei loro romanzi si respira una sensazione d’incompiutezza, sia nell’approssimarsi di un fatto oscuro, intimo e antico, sia nell’apparire di una dimensione metafisica o di un semplice “perché”, capaci di spingere oltre la trama e la poetica stessa insite nella narrazione.
Penso al mistero che anima, fin dalle prime battute, “Conversazione in Sicilia” di Vittorini. 
Oppure al racconto di Pavese che con il suo “La luna e i falò” sembra sempre preludere a qualche intima verità. 
Di Gadda ho già detto. 
Di Buzzati anche. 
Il Deserto dei Tartari” è, in parte, mistero. 
Rivelazioni compaiono anche ne “L’isola di Arturo” della Morante. 
E, in “Una lapide in Via Mazzini” tratto da uno dei racconti di Giorgio Bassani. 
Si può obiettare, fondatamente, che il genere giallo è cosa diversa dall’evocazione di verità nascoste e di atmosfere suggestive, da dialoghi serrati e trama complessa: dietro un giallo c'è, innanzitutto, un delitto.
Ma è proprio questo il punto: nessuno dei nostri autori ha affrontato il delitto, incipit e corollario dello sviluppo di un tema più profondo, come fece Sciascia e come hanno fatto Camilleri, Eco, Lucarelli.
Oppure lo hanno fatto fugacemente come Gadda e Buzzati. 
Ma, dentro di essi, la tendenza è rimasta latente, inesplorata, sommessa. 
Tuttavia evidente almeno nel modo di scrivere e di concepire lo sviluppo della trama, di raccontare una storia. 
Perché in Italia non è mai sorto un Simenon? 
Eppure, il successo di quest’autore, nel nostro Paese è stato davvero ragguardevole. 
Mi si dirà: ha contribuito molto lo sceneggiato televisivo che la Rai produsse negli anni ’60 con la straordinaria interpretazione di Gino Cervi.


Giusto, ma guarda che strano caso: tra gli sceneggiatori di quel cammeo della produzione televisiva nazionale c'era proprio Andrea Camilleri. 
Mi si dirà che Simenon è un caso di successo internazionale. 
Bene, ma ciò non toglie che abbia avuto successo anche da noi. 
Il pubblico era pronto da tempo, ma i nostri autori non lo erano, compressi in una dimensione di disagio rispetto al genere. 
Lo intuì precocemente Sciascia, divenendo modello del romanzo giallo all’italiana. 
Camilleri è il principale dei continuatori. 
Ma Eco è colui che ha definitivamente infranto ogni residuo argine, creando un testo di notevole respiro e ineccepibile modernità. 
Ha dimostrato come l’intreccio misterioso fosse adattabile o, meglio, congeniale a temi di dissertazione filosofica intrisa di profonde conoscenze storiche, realizzando con il citato “Il nome della rosa” un giallo che è anche saggio oltre che affresco storico pregevolissimo. 
Fuori dalla nostra tradizione? 
Oppure interamente dentro di essa, aderente al suo profilo nascosto? 
Pienamente dentro.
Camilleri, il Simenon sorto tra noi con una trentina d’anni di ritardo, ha avuto anch’egli uno straordinario successo internazionale: è la prova vivente di quale prospettiva si sarebbe potuta aprire innanzi ai nostri autori più prolifici e intensi. 
Camilleri è dentro o fuori la nostra tradizione? 
E’ pienamente dentro. 
Chi ha frequentato il romanzo giallo, da scrittore, sa bene di avere introdotto una sorta di ipertesto ibridandolo in uno strumento inadatto, per la sua condizione materiale, a concepirlo: il libro. 
E questo è avvenuto ben prima che “la rete” rivoluzionasse ogni cosa. 
E questo è avvenuto, sulla scia di Pirandello (non a caso tra i maestri del “teatro nel teatro”) e con riferimenti ad altre forme di speculazione intellettuale, in modo particolare proprio con Sciascia. 
E perfino con Levi, nel celebre capitolo dedicato al cantico dell’inferno: ma qui, il caso è del tutto particolare, vale solo come esempio ulteriore d’ibridazione ipertestuale ante litteram
In questa scia, pur rendendomi conto di essere altamente “irregolare”, voglio includere un romanziere contemporaneo come Paolo Maurensig con il suo primo lavoro “La variante di Luneburg” e un altro che mi è caro, il suggestivo “Il guardiano dei sogni”: nei due testi ritrovo elementi profondamente affini al romanzo giallo, in particolare al noir, in un racconto sobrio, lineare e avvincente.


Insomma, sento di poter affermare, a questo punto, che in Italia molti dei nostri più grandi autori siano stati “giallisti” mancati a causa di un pregiudizio culturale sedimentatosi a dispetto delle più elementari regole del buon senso. 
Comprendo che questa considerazione possa apparire blasfema, quasi volta a mettere in cattiva luce un immenso valore letterario: non è questo in discussione.
La mia rimane una provocazione con i tratti irrazionali dell’ipotesi indimostrabile, partorita da una sensazione, indotta da una tendenza critica verso la singolare “spocchia” che ha contraddistinto per molto tempo il mondo della produzione letteraria italiana.
Vuole essere un elemento di riflessione, un’ipotesi non del tutto priva di fondatezza, un punto di partenza per una ricerca analitica accurata e molto più estesa, nel tentativo di mettere insieme e farli coincidere, i pezzi di un puzzle sparpagliato negli anfratti delle sintassi, nei tratti dell’espressività di strutture linguistiche nascoste in alcuni dei nostri autori principali.
Magari, il tema affascinante di una ricerca più approfondita.
Chissà.
In ogni caso, miravo a levarmi dalle scatole il signor “sottotraparentesi” e di scuoterlo a dovere ma… … ( ) … ma dov’è finito… il vigliacco è fuggito prima del tempo.
Però ha lasciato le parentesi.
Maledetto, spera forse di tornare sotto spoglie diverse.
Le ha lasciate lì, come una minaccia incombente.
E’ vero, una nuova minaccia può sempre sorgere.
Vabbè, tanto, era solo una parola.
Già, solo una parola, una semplice parola.
Una parola?
Le parole sono importanti!

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