Gli struzzi, gli schiavi e i peluche castrati


Gli struzzi mettono la testa sotto la sabbia. Si nascondono, tentano di imitare un cespuglio per eludere l'attenzione dei predatori. Evitano che il "pericolo" si manifesti ai loro occhi e li costringa ad affrontarlo direttamente. Si tratta di una tattica divenuta strategia diffusa: li tiene in vita ed evita che troppe energie vengano disperse, consumate nella fuga o nella difesa. Nelle società umane, la comparazione con il comportamento degli struzzi ha assunto un valore metaforico, morale e persino etico: nella casa "comune" si fa così, dopotutto si finge di non vedere per non doversi confrontare con le mille insidie della convivenza. Ma c'è chi ne paga il prezzo.

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L'evidente espressione di un modello sociale che finge d'ignorare, per un ormai insostenibile quieto vivere, lo si trova, come sempre più spesso accade, nello spot pubblicitario.
Questo, non è la fonte, l'origine dell'errore, ma il suo riflesso. 
Puntare l'indice sulla pubblicità rimarrebbe un atto d'accusa miope, fuorviante, inutile, stupido.
La comunicazione pubblicitaria non è solo la scena che si apre sul teatro delle esistenze e delle relazioni che ci costituiscono socialmente, ma è anche il dietro le quinte al quale può accedere ciascuno di noi.
Basta solo volerlo.
Basta smettere di essere "tiepidi".
E' sufficiente decidersi a togliere la testa dalla sabbia e osservare la realtà che si nasconde dietro la finzione.
Una finzione molto ben costruita, sia chiaro: dagli spot delle sorridenti consegne a domicilio allo storytelling dei lavoratori felici di smistare pacchi.
Nulla da obiettare: i pubblicitari, quelli bravi, sanno fare il loro mestiere.
Che è quello di esaltare le "reason why", i punti di forza, celando gli aspetti di debolezza di un messaggio.
Ma chi osserva uno spot è chiamato a compiere uno sforzo di riflessione.


I paradigmi produttivi non sono costituiti solo dalle nuove tecnologie dell'informazione, dalle "app" che rendono possibile un feedback immediato tra domanda e risposta. 
Dietro un frenetico digitare, dietro il "gioco" del "tutto e subito", si cela l'abisso dei sotterranei, delle nuove miniere dalle quali si estraggono pacchi che contengono ogni genere di oggetto commerciabile.
Abissi nei quali si muovono corpi di esseri umani condannati alle nuove forme di lavoro-schiavitù del XXI secolo: magazzinieri, teleseller inbound, corrieri, raider.


Malpagati, sfruttati, privi di tutele, costretti a ritmi di lavoro inauditi.
Ma non solo costoro: questi sono la punta dell'iceberg di un debolissimo quanto vasto, vastissimo mondo sommerso.
Che non riguarda solo i lavoratori dipendenti delle imprese multinazionali, ma migliaia di cosiddette "partite Iva" che sbarcano il lunario e pure a stento.
Certo, la produzione di beni e di servizi subisce da tempo gli effetti di un cambiamento epocale.
Già da qualche decennio le città hanno poco alla volta perso i negozi tradizionali per concentrarsi nei centri commerciali, quelli sociologicamente definiti "non luoghi".
Dunque, perché meravigliarsi?
Tutto cambia, si evolve e s'involve seguendo ritmi caotici ma inesorabili.
E tutti siamo lavoratori e consumatori allo stesso tempo, tutti partecipi di sistemi alimentati da miliardi di transazioni giornaliere dalle quali traiamo piccoli e grandi benefici.
E sempre tutti percepiamo che la riduzione della mobilità connessa a questi nuovi meccanismi di produzione e distribuzione, aiuti il risanamento ambientale e la salute.
Certo, questo secolo si presenta con la potenza di un annuncio straordinario: dalla società di massa del '900 al modello in cui il singolo emerge, sceglie, consuma, presto sarà assistito dalla telemedicina, non dovrà mettersi in coda, potrà svolgere parte del suo lavoro entro comode mura domestiche e via andando.
Ma non sarà così per tutti. 
Perchè il "lavoro dello spirito", immaginato con perizia e acume intellettuale da uno dei maestri del nostro tempo, il filosofo e accademico Massimo Cacciari, come prospettiva di liberazione dal lavoro necessario, proprio grazie al formidabile progresso tecnologico, è ancora un'ipotesi o al meglio una possibilità di lungo, lunghissimo periodo.
E si tratta di un evento che non è figlio di un éschaton apocalittico destinato a non avere mai fine, un progresso indefinito che sempre "salva": no, questa possibilità è espressione di una scelta, di una decisione che ci riguarda tutti.
Ma nella consapevolezza. 
E non in una vaga aspettativa.
Nel frattempo, il terremoto distrugge velocemente e molto, mentre crea poco e con lentezza, lasciando aperte voragini delle quali non si vede il fondo.


Durante le fasi più tragiche della pandemia - tuttora in corso e tale da sollevare evidenti problemi costituzionali e di cultura sanitaria - figure che attraversano frenetiche le città, che movimentano migliaia di pacchi e che rispondono a centinaia di telefonate al giorno, hanno tenuto in piedi un "sistema" socio-economico miseramente caduco e in crisi d'identità.


I diritti spariscono. 
I governi sono debolissimi.
Il precariato è la regola per più di una generazione.
La crisi sanitaria ha reso ancora più evidente la crisi delle diseguaglianze radicali.
Quali?
E' presto detto.
Mentre prendeva piede il cosiddetto "smart working" in un modello di produzione dei servizi pubblici sindacalizzato oltre ogni eccesso, milioni di dipendenti statali e di pensionati hanno goduto di una condizione privilegiata, dovendosi preoccupare solo dei comandi da digitare su un telefonino.
Ovvero, di programmare la passeggiata, con annesse deiezioni, del loro cane.


Questo è lo schema di una società orrendamente diseguale.
Società ospitale verso struzzi che non corrono alcun pericolo e che si sono trasformati, consapevoli o meno, in piccoli predatori di privilegi, a loro volta sfruttati da predatori sempre più grandi e voraci che controllano e definiscono gli standard di efficienza imponendoli alle nuove categorie di lavoratori-schiavi.
Per questa via si manifestano paradossi sempre più intollerabili.
Ne cito uno tra tanti.
Uno davvero sconcertante.
Può apparire misero, secondario.
Ma non lo è.
Non è grottesca ormai, quest'attenzione maniacale verso gli animali domestici?
Intere e complesse catene di produzione e di distribuzione del pet food e del pet care per soddisfare una domanda tragicomica che deborda sui social, invade la pubblicità, alimenta un "animalismo" che vampirizza l'essere umano: l'animale domestico vale più di emigrato o di un corriere?
Lo si chieda ad uno qualunque dei "padroni" che pretendono di ritrovare ogni giorno il loro pupazzo animato ad attenderli.
Il pupazzo di pelo che li "capisce", che non li "giudica", che li "adora", che non li "tradisce" e via banalizzando queste e altre pretese consolidate da un "io" esasperato e malato.
Il tutto condito da frasi che lasciano attoniti: 
«oh, il mio tesorino se non lo porto fuori io non fa né cacca e né pipì... E mi aspetta anche per giorni senza sporcare»
Oppure:
 «ah mbè, il mio l'ho fatto castrare, così non soffre e vive tranquillo...»
Che squallore.
Ebbene, a valutare con attenzione, sta avvenendo anche questo.
Non mi si dica che abbia in odio gli animali. 
Tutt'altro.
Ma ormai ho in uggia animali  usati come pupazzi, iper-protetti, fastidiosi e cretini non meno dei loro padroni arci-cretini.
Le società mutano. 
Si affermano nuovi valori.
Vale per i cani.
Vale per i gatti.
Vale per i figli smidollati che pretendono di trasformare i genitori in schiavi, i padri in "mammi" e le madri in "mommy".
Allora, muta e si afferma tutto ciò che è ritenuto di sostanziale valore fino a collocarlo su una scala gerarchica.
Così, il benessere del gatto o la trasformazione del cane in "figlio" o del figlio in "cane", sono processi in atto alla pari del diritto di ricevere lo stipendio e l'hamburger rimanendo sul divano.
Che, a sua volta, giustifica il diritto a ricevere compensi elevatissimi per aver conseguito - magari raccattato nel mercato delle clientele - i fregi di "manager pubblici" che somigliano, sempre più ironicamente, ai "mega-direttori-duca-conte" inventati da quel genio che fu Paolo Villaggio in "Fantozzi".
Con risultati di efficienza e di efficacia sulla "macchina pubblica" che sono sotto gli occhi di tutti.
Ecco il crollo.
Ecco la crisi.
Ecco la sfiducia. 
Ecco i moti irrazionali.
Ecco la stupidità.
Ed ecco che uomini e donne, indiscutibilmente di minor valore di cani e di gatti, possono essere trattati come schiavi.
Al gatto i bocconcini scelti.
Al corriere le proteste se non li consegna per tempo.
La scala, tra livelli di povertà e di degrado fragilissimi e vette di benessere impensabili, è talmente disarmonica da aver smarrito i propri connotati funzionali: salire è impossibile.
Mentre chi sta in alto non corre il rischio di cadere.
Compresi cani e gatti.  


Allora, cosa pensare di fronte agli spot dei grandi distributori globali e locali che decantano il piacere del rullo su cui scorrono i pacchi e della borsa termica sulle spalle, costellati di figure sorridenti, di gruppi familiari felici, di gatti "castrati" e di cani "peluche" con la ciotola dorata?
Si può pensare all'etica della responsabilità di weberiana memoria: rapporto tra mezzi/fini e relative conseguenze dell'agire o del "non agire".
Si può pensare ai propri privilegi.
Si può pensare a coloro che non solo non hanno privilegi ma nemmeno diritti.
Si può pensare a un vero impegno civile.
E politico.
Si può pensare alla desolazione.
Si può pensare ai nuovi "cretini", incivili e infantili prodotti di questo sistema ed eufemisticamente chiamati "no vax".
Si può pensare con sconcerto ai politici e ai sindacalisti da salotto che coprono col loro blaterare il putridume di cui si alimentano.
Si può pensare con un crescente conato di nausea ai burocrati che vivono sull'assurdità delle leggi che applicano o che disapplicano per convenienza.
Si può pensare alle scuole e alle università ridotte a "compitifici" ed "esamifici" che a malapena sfornano figure competenti o pronte ad acquisire competenze.
Si può pensare, trasecolando, alla magistratura svelata dal magistrato Palamara.
Si può pensare alla criminalità che sguazza su tutto.
Oppure, si può pensare, dopotutto, che fare come gli struzzi non sia poi così male: non serve la sabbia, basta usare il telefonino e fotografare il gatto che esce da una pantofola o il cane che dorme tra le lenzuola.
Un post sui social.
Una battuta.
Una risata.
Un lamento sulla giornata grigia o su un gol mancato.
E via così.
L'Occidente, la "terra del tramonto", è di scena.

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