La realtà apparente dell'arte

Il testo pittorico non è la testimonianza della progressività della tecnica: è un atto di comunicazione unico e irripetibile che chiede di essere letto con lo sguardo del tempo cui appartiene, che lo ha espresso e segnato nei caratteri estetici. A questi soggiace, proprio a causa del tempo, un simbolismo divenuto sfuggente e che impone uno sforzo di ricostruzione per fare storia attraverso l’arte.

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Si può ancora oggi, discorrendo d’arte, essere platonici: ridurre la rappresentazione a imitazione di un’imitazione delle idee; oppure, considerare l’espressione artistica un accrescimento delle capacità di conoscenza del reale.
Non ho usato a caso le parole “rappresentazione” e “espressione”.
Platonicamente, la rappresentazione imita: la repraesentatio come ri-presentazione di un’immagine, re-ad-praesentare, rendere di nuovo presente.
Espressione, invece, è exprimere da cui deriva expressio che indica lo spremere, il fare uscire qualcosa da qualcos’altro.
Dunque, imitare oppure trarre, trarre da sé, trarre rielaborando il fenomeno sensibile portandolo in una nuova forma alla percezione dei sensi, una forma che non è comune, che non è mera imitazione ma realtà nuova.
Il ritratto di una persona non è quella persona: è un’altra cosa, è un’altra essenza, è il percepito proposto in una nuova forma, è altro anche dall’oggetto imitato.

  
Si narra che in opposizione ai critici sulla scarsa somiglianza del ritratto che fece di Gertrude Stein a inizio Novecento, Pablo Picasso rispose: «Non importa. Lo sarà!».


Lo stile diviene così il modo in cui un supporto (la tela) viene utilizzato per tracciare un segno originale. 
Solo chi copia un dipinto imita: imita lo stile mediante la perfetta riproposizione di linee e colori.
Ma il dipinto originale non imita: è.
Oppure, per dirla con Picasso, sarà.
L’atto artistico è pura creazione di una forma, ma è creazione intertestuale: è il pensiero dell’artista sulla figura divina della Madonna o del Cristo in croce. 
Ma il pensiero dell’artista non è una tabula rasa: è costituito da una continua revisione della memoria di tutta la realtà percepibile attraverso i sensi.
Di qui lo stile che è unico. 
E si piega all’interazione comunicativa: atto creativo di un concetto sovrasensibile (l’immagine divina) in una forma comprensibile.
Poiché se chi scrive desidera farsi leggere, chi dipinge desidera farsi guardare.


Così emerge la ragione intrinseca di atto artistico attribuibile anche alle espressioni figurative vissute come primitive (si pensi all’altare di Ratchis, datato tra il 737 e il 744 d.C., come esempio tra centinaia) e che al contrario occorre definire sintetiche.


Quel sintetismo è coerenza espressiva: da una parte comunica l’essenziale e dall’altra satura ogni argomento sulla impossibile rappresentazione reale del soprasensibile. 
Questo è il riflesso di un’epoca che vide l’irrompere della visione iconoclasta proveniente da Costantinopoli: il divino non è proponibile in immagini, quindi le immagini delle divinità cristiane debbono essere soppresse. 
Per fortuna nostra, sul soglio di Pietro sedeva Gregorio III, di tutt’altro avviso. 
Ma questa è un’altra storia.
Tornando al punto, se le cose stanno così, bisogna ammettere che il realismo pittorico e plastico altro non sono che il riflesso stilistico ed estetico di una lunga epoca, un’epoca che dalla fondazione della diffusa civiltà comunale in Italia e nelle aree più sviluppate del continente europeo, si è evoluta anche nelle forme artistiche e nel loro significato. 
Quel significato che soggiace a ogni segno e che non bisogna mai perdere di vista. 
L’atto artistico “significa” nello stesso momento in cui “è”.
La ri-scoperta della prospettiva (ma non solo la prospettiva) è dunque un fatto significativo oltre che di stile della rappresentazione.
Può risultare utile un esempio. 
Celeberrimo.


Quando Piero della Francesca (1416 - 1492) dipinge “La flagellazione”, in una data incerta, forse a cavallo del 1453, anno della caduta di Costantinopoli e dell’eclissi dell’impero romano d'oriente, non usa la prospettiva per un afflato geometrico ma per collocare due eventi distinti nello spazio pittorico, assegnando di riflesso all’organizzazione prospettica degli spazi un significato simbolico specifico.
Si legga attentamente questo dipinto.
A sinistra, la scena della flagellazione con Pilato vestito come l’imperatore bizantino – chiara comparazione concettuale tra le due figure, mentre il riferimento non è altrettanto chiaro se possa essere attribuito a Giovanni VIII Paleologo oppure a suo figlio Costantino XI – mentre uno sconosciuto ripreso di spalle, vestito come un turco – forse è Maometto II, forse è suo padre Murad II il quale, a un passo dalla conquista di Costantinopoli, decise di desistere - assiste alla scena ma accenna con la mano un gesto che potrebbe essere di clemenza oppure potrebbe essere connotato come atteggiamento di potere verso il Cristo (quindi verso la personificazione della cristianità rappresentata dalla capitale dell’impero romano d’oriente fondata dal primo imperatore cristiano) sottoposto alle pene inflitte dai due carnefici.
La scena, lo si evince, è collocata a Gerusalemme: dunque è vissuta in un passato che si trasfigura nel presente facendo uso di una simbologia che non ha nulla da invidiare a quella, rinomata, di tradizione medievale.
Una simbologia che si riafferma nella scena posta a destra: sullo sfondo di un paesaggio urbano, probabilmente italiano e visto di scorcio, tre figure sembrano assorte in una conversazione di alto profilo (citazione del tema delle conversazioni sacre).
Forse è la metafora delle inutili discussioni in occidente, a Ferrara e poi a Firenze, nel 1436, durante il Concilio che avrebbe dovuto sancire la riunificazione delle chiese scismatiche e la riedizione di una crociata per respingere gli ottomani e salvare Costantinopoli – simbolicamente vista come uno dei centri della cristianità in quell’oriente dove la fede era sorta – ovvero la trattativa tra un diplomatico di alto rango (a sinistra, forse il cardinale Bessarione) e un “signore” italiano (siamo in un’epoca di dominatori combattenti nei novelli stati signorili italiani, da Federico di Montefeltro a Sigismondo Pandolfo Malatesta e Francesco Sforza, solo per citarne alcuni) al quale assegnare il ruolo di difensore della cristianità.
In mezzo a loro, un giovane assorto, che ha lo sguardo lontano: forse il "Porfirogenito" (porta un abito rosso porpora, è a piedi nudi e possiede un atteggiamento regale, di cortese distacco) colui che avrebbe dovuto riassumere per diritto dinastico il trono di Bisanzio.
Ecco, in questa stringata ricostruzione del significato di un dipinto, sul quale si sono arrovellati e continuano a farlo illustri studiosi, c’è tuttavia l’esempio di quanto risulti dominante il valore del simbolo e di quanto la dimensione prospettica funga primariamente da “macchina del tempo” grazie alla quale l’evento contemporaneo trasla in uno spazio-tempo intrecciato, come in due piani sequenza sovrapposti, usando con formidabile maestria l’atto di sintesi delle immagini sul supporto bidimensionale.
La pittura del ‘400 non sfonda solo la terza dimensione: non è per questo o solo per questo che occorre fornirla di un riconoscimento.
Sul piano tecnico, è il trattamento della luce e del colore ad essere l'altro elemento innovativo.
Accade sempre con Piero della Francesca prima e poi con  i "veneti", con Giovanni Bellini in particolare ("Pala di Pesaro", 1471 - 1483) che ne trasse, proprio a partire dal "Maestro di Borgo Sansepolcro", in felice sintesi con la pittura nordica, un originale "tonalismo": l'immagine concepita come precisa identità di luce che governa l'intera scena del dipinto.


Ecco come la tecnica pittorica non è più un semplice strumento: diventa modello espressivo.
Così, viene a fondarsi un linguaggio per immagini del tutto nuovo, una sintassi diversa che aveva bisogno di una grammatica diversa, parole nuove per parlare a un tempo nuovo, parole che cambieranno nel corso dei secoli ma che fermano l’attimo e lo colgono. 
Con unicità irripetibile.
Certamente, questo nuovo linguaggio è misura della potenza espressiva che la tela rivela, fissando un punto di vista obbligato ma potenzialmente infinito.
Una luce che rivela ma che è anche capace di suggerire un "oltre".


Avverrà con un precocissimo Lorenzo Lotto (1527 - 1529, Pala di Santa Maria dei Carmini, Venezia), che aprirà un varco inaspettato e incompreso, nel quale molto tempo dopo sarà Caravaggio a gettarsi, con esiti in quel momento imprevedibili.   
Eppure, non c’è nulla di progressivo in questo, non c’è un mondo in via di maturazione, ma artisti che segnano la contemporaneità e la tramandano a un pubblico che oggi si pone annose domande sul significato mentre, all’epoca, tutto era ben chiaro o volutamente ambiguo per essere compreso solo dalle élite cui la raffigurazione era destinata.
D’altra parte, il linguaggio medievale dei gesti ci sfugge ampiamente: senza questa conoscenza, persino Giotto rimane parzialmente incomprensibile ai più. 
Ed è così che si rimane ancorati alla ricostruzione vasariana cinquecentesca per la quale l’arte è progresso tanto da fargli scrivere: 
«E veramente fu miracolo grandissimo, che quella età e grossa et inetta avesse forza d’operare in Giotto sì dottamente, che il disegno, del quale poca o niuna cognizione avevano gl’uomini di que’ tempi, mediante lui ritornasse del tutto in vita».
Seguendo questa via, Giotto assume importanza solo per il suo talento d’innovatore, perdendo il ruolo di artista del suo tempo.
La questione non si limita certo al '300 di Giotto. 
Uno dei grandi misteri dell'arte rimane Giorgione, vissuto tra la fine del XV e il primo decennio del XVI secolo. 
Maestro del "tonalismo veneto" che apprese da Giovanni Bellini, Giorgione, giovane e misterioso artista originario di Castelfranco, ha lasciato opere enigmatiche: apparentemente ispirate ad un'immediatezza naturalistica e di figura, sono in realtà connotate da un potente simbolismo che sfugge a una determinazione univoca di significato. 
Il caso più discusso rimane la "Tempesta" (1502-1503, Gallerie dell'Accademia, Venezia).
Ma non è l'unico.
Giorgione s'inserisce nella scia di una corrente "nicodemita" che ebbe molte radici in terra veneta (anche nel caso di Lorenzo lotto e di Tiziano), non fu affatto estranea, come è noto, a Michelangelo oltre che, probabilmente, a Sebastiano del Piombo sceso a Roma da Venezia per mettersi sotto l'ala protettiva del Buonarroti. 
A ben vedere, esiste un filo conduttore che attraversa tutta l'arte del '400 e del '500 contagiata da fermenti di riformismo religioso davvero intensi quanto segnati da posizioni conciliatorie, unitarie, contrarie all'intransigenza netta dei conservatori.
Così, una certa linea interpretativa tende a segnalare persino il passaggio dall'arte "greca" a quella "latina", incarnata in modo innovativo da Giotto, sotto l'influenza degli ordini mendicanti e del francescanesimo in modo particolare.
Allora, è il contesto storico, sempre più complesso di quel che appaia, ad avere influenza e a indurre le condizioni di stile, tecnica ed estetica.
Se nell’arte si pone, gerarchicamente, un presente perennemente superiore al passato, non rimarrà nulla di essa, all'infuori di un racconto forzato.
Ogni atto artistico è contemporaneo, segna il proprio tempo e solo in questa dimensione deve essere riletto e rivisto, con animo sgombro da preconcetti e visioni totalizzanti, come un reale che solo apparentemente è giunto fino a noi.
Nel profondo, quel "reale" non è la realtà del suo tempo se non è letto nella sua "repraesentatio", non solo come concetto ri-estrapolato, ma soprattutto come forma che è "expressio" di un'epoca e delle sue sensibilità estetiche e non semplice immediatezza di un significato religioso o esornativo.
Esiste qualcosa che è un di più, che supera l'apparente visibile per segnalare, invece, un fiume carsico in incessante movimento.
E che trascina con sè, in questo movimento impetuoso, fermenti dall'incerto sviluppo.
Pensiamo a Leonardo da Vinci  
Come affermò nel suo "Trattato della Pittura": 
«Farai le figure in tale atto, il quale sia sufficiente a dimostrare quello che la figura ha nell'animo, altrimenti la tua arte non sarà laudabile».
Così, l'arte inizia da un'immagine e finisce in un indeterminato con il quale occorre entrare in contatto.
Ora.
Ma come allora.
E' l'inizio di un'introspezione psicologica che condurrà fino a Freud e alla tele di Francis Bacon?
Forse è uno degli affluenti di quel fiume. Oppure un suo effluente secondario.
Ma di certo esiste un senso dell'arte che appartiene a quel tempo e che in quel tempo dev'essere indagato.
Del resto, è ancora Leonardo a illuminare:
«A torto si lamentan li omini della fuga del tempo, incolpando quello di troppa velocità, non s'accorgendo quello essere di bastevole transito; ma bona memoria, di che la natura ci ha dotati, ci fa che ogni cosa lungamente passata ci pare esser presente».
Ecco, è quella «bona memoria» a dover essere recuperata.
Non la si creda impresa facile.  

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