IL CORPO E IL RACCONTO


Osservare se stessi, profondamente, impone l'incontro con una figura estranea. Si tratta del modo in cui l'arte ha guardato ai corpi: degli esseri umani come degli animali, di tutta la natura vissuta come materia viva. Sovvertendo, con quel senso di straniamento, quanto nella presenza reale è appena percepito, ormai nascosto, velato dall'abitudine, ridotto nella sua potenza al punto da scomparire. Così, i ritratti pittorici, le rappresentazioni plastiche, e poi  le immagini fotografiche e i primi piani del cinema, rammentano, da un passato antichissimo fino al nostro secolo, che il pensiero del mondo è sempre un corpo in relazione con l'esistente, che "agire" non corrisponde al "fare" poichè il primo è ricerca di senso, mentre il secondo è solo ricerca di risultato. Una pittrice italiana, Maria Botticelli, ha compreso la necessità di rappresentare il corpo come "agito", nel segno del manifestarsi alla meraviglia, dell'interrogarsi, del muovere verso il dubbio, accettando che l'incertezza non sia lo stanco declinare della rinuncia ma desiderio, anelito struggente di comprensione.

Il fascino del ritratto è nella verità dello sguardo. 
Eppure, può bastare il marginale gesto della mano a sovvertire ogni certezza.
L'espressione del viso, un cenno della bocca o una delle numerose, possibili digressioni dei muscoli facciali, concorrono a rappresentare l'emergere di un sentimento radicato o di un'emozione improvvisa.
Secondo il celebre psicologo statunitense Paul Ekman, sono oltre settemila le espressioni facciali che un individuo può assumere.
Più in generale, il "linguaggio del corpo", attraverso il viso e i gesti, nella postura e nella relazione con lo spazio, indica mondi nascosti, celati non solo all'osservatore ma anche a coloro che ne sono i protagonisti. 
Così, il rapporto tra soggetto e oggetto muta in una correlazione inscindibile: non esiste, mai, un corpo isolato.
Queste banali considerazioni hanno costituito il presupposto della rappresentazione nell'arte.
A lungo, nella pittura e nella scultura.
Ingaggiato un faticoso duello con voci assenti, il riflesso si è manifestato nell'utopia del fare artistico, quando il corpo è stato sognato nella scena di un'ideale assolutezza, slegata da quella ineluttabile relazione, come un corpo in sé, un corpo che s'impone, un viso che non ha un passato.
Esempi?
Innumerevoli e sparsi in ogni epoca, c'è davvero l'imbarazzo della scelta: dalla koinè delle civiltà mediterranee e orientali all'arte che fiorì nelle pòlis greche, ai volti sorprendenti del Fayyum alla ritrattistica romana, dai mosaici alle immagini iconiche, dalle figure racchiuse negli evangelari alle rappresentazioni nello stile romanico e poi gotico delle basiliche e delle cattedrali fino alla rivoluzione del Duecento e del Trecento nell'arte sacra, passando per la lunga stagione "umanista" e poi "rinascimentale", apice illusorio condotto oltre dalla "maniera" fino all'innovazione caravaggesca e barocca che preludono alla convivenza del ritratto "aristocratico" e "borghese" tra Settecento e Ottocento, non prima di aver assistito, un secolo prima, ai virtuosismi di Rubens, Rembrandt e Vermeer prima di gettarsi nel crogiolo impressionista-espressionista che nel tratto finale, quello forse più intenso, quello del "secolo lungo" di Hobsbawm, quello di van Gogh, Munch, Gauguin, Klimt, Schiele, Picasso, Modigliani, ha connotato l'agone con la fotografia, sfida mai davvero conclusa ma solo sospesa nella tregua feconda della Pop Art di Andy Warhol e Roy Lichtenstein e nelle figure decomposte di Francis Bacon.
L'estraneità si è lungamente proposta come scioglimento di ogni legame, dunque come presenza che domina l'osservatore: la relazione esiste come inversione dell'usuale paradigma.


Utopia riuscita?
Può sembrare paradossale, ma l'arte si riconosce esattamente in questo risultato, in un "fare" che riesca a produrre un "agire".
Il risultato capace di rispecchiare la ricerca di senso.
Ecco la ragione di un'ardente difficoltà: ritrarre se stessi comporta un'eguale azione di straniamento rispetto ad un oggetto altro, a un corpo altro.
Si tratta di un atto coraggioso: non è rappresentazione del sè ma un apparire contro il sé.


Non è da tutti.
Ci è riuscita Maria Botticelli.
Una pittrice insolita.


Attratta dal corpo come matrice di quella ricerca e non come desiderio narcisistico.
Il corpo, il volto propriamente detto ma anche il "volto" potentemente espressivo contenuto nelle fattezze delle mani e dei piedi, delle braccia e delle gambe, del grembo e della schiena, del petto e delle spalle, in un luogo e in un tempo dilatati, nella luce che abbraccia l'ombra, nel gesto che crea la posa: il corpo agisce in una relazione fino a fondarla, fino a sgretolare l'illusorio erotismo del possesso e del feticismo irrisolto per rendere, semplicemente, la verità della forma, per ricostituirsi in apparizione della sensualità come delirante tempo dell'immagine.


Un tempo diverso dal suo scorrere usuale, lineare, fuggevole.
Un tempo che si fa racconto: sempre uguale per chi è sordo nello sguardo; sempre nuovo per chi sa ascoltare con gli occhi.
Scorgo la passione di Maria Botticelli in una fotografia che la ritrae.
Attonita, osserva rapita un dipinto: si tratta della "Salomè con la testa del Battista", opera di Caravaggio datata 1607.
Ripresa di spalle, accovacciata per terra, sono certo che sia rimasta così molto a lungo.
Per lei, quei corpi dipinti recitano senza le parole. 
Non ne hanno bisogno anzi, sarebbero superflue, inutili, persino dissonanti rispetto al dramma di una testa recisa per soddisfare un desiderio di morte stuprata: il gesto violento che separa, la mutilazione che uccide di nuovo, che umilia la natura dell'umano per condurlo alla contemplazione voluttuosa, giù, nel baratro delle pulsioni, là dove si annida la limpidezza tragica delle emozioni.
Non c'è bellezza se non nella brama delle passioni più cocenti.
La bellezza è nel tormento furioso della verità.
Che è vivida percezione sensuale oppure non è che nulla.
In quell'antro profondo, per chi è rimasto, sparisce la menzogna. E tutto, davvero tutto, si rivela. 


Così, Maria Botticelli mostra il suo coraggio artistico: separa se stessa dal proprio corpo per renderlo estraneo alla sua visione.
Prima, facendone un'immagine fotografica: il passo dello straniamento.
Lì, è già qualcos'altro, appartiene a una dimensione surreale, perfino simbolica.


Dopo, ritrovandolo in una rappresentazione che è finalmente racconto: il momento della verità.


Funambolismi della soggettività?
E' davvero questo il fulcro della creatività dell'artista beneventana?
Una sorta di caduta nella singolarità dell'espressione, la vana immersione in quella supposta unicità che costituirebbe il fare artistico?
Il crinale è sottile.
Maria Botticelli dipinge anche altri volti oltre il suo.


Anche altri corpi oltre il suo.


Ma deve essersi accorta che questa possibilità non rivesta alcuna importanza.
In lei la capacità di straniamento è ormai solidamente conquistata: usa il suo corpo come uno strumento dotato di formidabile duttilità.


Non è più neanche un modello ma una figura dell'essere umano affidata al suo sguardo, alla sensibilità della sua visione, alla natura profonda delle sue emozioni, del suo "sentire".


Tecnicamente e logisticamente, per un'artista come lei, è più semplice adottare questa procedura: ogni momento può essere quello giusto e non c'è necessità di scomodare qualcun altro oltre se stessa.
Fino a quando l'istanza del racconto che promana da un solo corpo le sarà sufficiente.
Almeno per adesso, è stato così.
E potrebbe continuare ad esserlo a lungo.


Si tratta di un appello creativo che viene soddisfatto dalle sue doti: come un'attrice consumata è consapevole di quanto l'interpretazione sia sempre il transito in una terra di morte, passaggio durante il quale la soggettività muta in fenomeno apparente. 
A emergere è una figura dotata di un tempo limitato e intensissimo, orfana di passato e priva di futuro.
Oggetto osservato da un soggetto che lo incarna senza più sentirselo addosso.


Un gioco complesso. 
Faticoso.
E pieno.
In questo consiste quel crinale poc'anzi evocato.
Sottile e difficile da attraversare ogni volta.
Ma ogni volta è magia, brivido, sangue che finalmente pulsa sotto la pelle.


Osservare le sue tele mi ha rammentato il personaggio di un racconto, un mio racconto: "Le streghe di Shakespeare".
La protagonista, Katarina Olin, in una lunga dissertazione, spiega: 
«...L’essere non può andare oltre la fame di vita, solo questo è lo scopo senza finalità che sorregge l’intima nascosta disperazione della coscienza. Non esistono dicotomie accettabili a parte vivere o morire: la prima non ha aggettivi; la seconda è soave abbandono. La vita deve celebrare se stessa divorando altra vita, nutrendosi di vita e desiderando vita. In questa memoria perduta e calpestata è inscritta l’autentica identità dell’essere umano, che contempla l’abisso e si abbandona ai sensi nella più cruenta carnalità. Non esistono due essenze: la carne e lo spirito. Non sono divise, non sono indifferenziate, sono una cosa sola, l’una conduce all’altra.»
Luce e ombra.
Il mai detto e l'ineffabile.
Nulla di soggettivo, di personale, di intimo.


L'arte è qualcosa che al suo apparire sorprende l'artista prima di ogni altro.
L'artista è un tramite: questo, Maria Botticelli, lo ha capito da tempo.
Così, esplora attendendo di vedere il risultato, il "fatto".


Ma non lo vede più, non è più necessario: lo apprende lasciando che "agisca" come racconto nel quale perdersi.
Al principio, per ritrovarsi.
Adesso, per ricominciare ogni volta.


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