Il nuovo Novecento

Non è passato il '900. Osserva sornione le sue tracce, epigoni contemporanee di un mondo insonne, febbrile, intenso, interrotto. Che giunge oggi al disvelamento delle sue visioni. Urlate nell'impeto, fino alla contemplazione della materia, polverosa, silente, rassegnata sulla soglia incerto, al termine di un tempo estenuato. Non è passato il '900 per chi sappia coglierne i silenzi, lasciati nelle valli dell'incanto. L'arte ha presentito. Adesso, ne scopre gli echi, ancora più lenti, come in un cammino solitario. Sono occhi preziosi. Come quelli di Adolfo De Turris, classe 1952, pittore del XX secolo. Racconta, con raffinatezza, un'eredità difficile. Non tenta la strada più breve: sceglie, con coraggio, quella più impervia. Perché si tratta di essere autentici. E pare di udire, dagli albori del secolo, Giovanni Pascoli: [...] "Rimane nella valle il canto." (da "La partenza del boscaiolo", Canti di Castelvecchio, 1903) 

Non è un'eredità accessibile il '900. 
Si lascia attraversare. 
Come la muta presenza di una voce: profonda, intensa, possiede gli occhi febbrili dell'impeto e lo sguardo di pietra del tempo.
Chiede coraggio: quello della malinconia, capace di scuotere il cammino e di spingere a voltarsi indietro, per lasciarsi cogliere da una folata di vento che annuncia il passaggio di una soglia dimenticata.
Questo coraggio è tutto nei dipinti di Adolfo De Turris, un'artista che come tanti, nell'inflazionato mondo dell'espressione su tela, è stato travolto dalla canea di voci e di urli che accompagna questa impazzita e miope contemporaneità. 
Rimasto ai margini (eppure vincitore di premi, ha partecipato a varie collettive e realizzato diverse personali) merita invece che occhi nuovi si lascino attraversare dalle atmosfere dei suoi dipinti: silenziosi e potenti, accolgono l'osservatore in un viaggio a ritroso, cadenzato dalla poesia di rappresentazioni sfumate e consistenti, come lo è l'esistenza nelle sue mille e contraddittorie forme.
Così, De Turris racconta: e qui sorge l'artista.


I suoi racconti non hanno se stesso al vertice, la sua personalità non emerge come carattere singolare riversato nel testo pittorico. 
Prima di altri, l'artista di Montalbano Jonico - trapiantato a Milano - ha compreso quanta essenza d'espressione provenga da uno sguardo scelto dal talento, dalla maestria, dalla passione del narrare.
L'artista si fa strumento, ineguagliabile, di mondi.
E mai propositore del riflesso di sé.
Semmai, cantore ispirato, custode, erede generoso di un'epoca che la sua sensibilità ha attraversato soffermandosi a sentire, a intuire, a capire.
E infine, a esprimere in tutta la sua profondità.
Appartenendovi.
Lasciando le soglie dei suoi dipinti aperte per coloro che vogliano percepire il suo stesso coraggio.
E come lui, abbiano a cuore la limpidezza dell'autenticità.
Così, il "suo" Novecento diventa patrimonio comune: nessun accento lirico, personale, incarnato.
Ma una tensione verso l'altro, l'osservatore, lo spettatore di una malinconia che possiede un respiro, che sussurra, che attraversa il tempo per soffermarsi in occhi sapidi di curiosità.
Certo, ogni narrato giace su un fondo di origine lirica.
Eppure, l'arte diviene tale quando riesce a far segno a qualcosa che trascenda l'autore.
E l'autore coglie il segno come superamento di ogni confine, anche e soprattutto dei propri limiti, come eco che salva da se stessi e permette il transito nelle coscienze.


Ecco: osservando le sue opere, ho via via percepito la sua ricerca a ritroso, il suo linguaggio lungamente meditato, intarsiato come un monile di fattura robusta, imponente e racchiuso, intriso, madido di materia, carico di pensieri.
Mi ha rammentato i libri di una volta, quelli di scuola, scritti e impaginati con cura: appartenevano a mia madre, figlia di un secolo già maturo. 
Ne è rimasto qualcuno. 
Hanno odore, consistenza, solidità. 
Rappresentano, per questo, una contraddizione nell'età del dubbio, della lunga corrente nichilista.
Ma sono anche il prodotto dell'ultima età del libro stampato. 
Ed è l'ultima età delle parole e del pensiero stressato fino all'estremo: ogni vera filosofia conduce fino al margine più lontano.
Allora, la contraddizione si stempera, lasciando che a sorgere sia un impasto limpido di afflati, tra forze che spingono sulla ricerca più dura e la tenera influenza di un pensiero avvolto nel dubbio della leggerezza, laddove la parola e la pittura si fanno poesia dell'immediatezza più vasta.
Davvero, con i testi pittorici di De Turris, l'osservatore rimane attonito nella rievocazione di versi e di dipinti che emergono come cenni trattenuti dalla sua sensibilità, tracce di un'età febbrile, tragica, densa.
Quali?
Tanti, moltissimi.
Non solo quelli di Pascoli.
Che ricordano "Meriggio" (1927) di Carlo Carrà. 
E  lo splendido "Notturno jonico" (2010) di Adolfo De Turris.


Anche quelli delle Laudi di D'Annunzio:
«Io nacqui ogni mattina. / Ogni mio risveglio / fu come un'improvvisa / nascita nella luce: / attoniti i miei occhi / miravano la luce / e il mondo.» Da "Laus Vitae"
Che ricordano "La figlia Anna", uno dei tanti ritratti della seconda decade del XX secolo dipinti da Armando Spadini. Quello sguardo è ancora ne "La lunga strada" dipinto da Adolfo De Turris nel 1988.


E ancora, di D'Annunzio e sempre dalle "Laudi":
«Il Sole declina fra i cieli e le tombe. / Ovunque l'inane caligine incombe. / Udremo sull'alba squillare le trombe? / Ricordati e aspetta.» Da "Canti della ricordanza e dell'aspettazione"
Versi suscitati da molte delle opere di De Turris: "Nella terra dei vulcani" (2009),  


"Notturno" (2020) e "Molti soldati" (2012). 



Poi, il richiamo a una strofa di "Acquazzone" tratta dalla raccolta "Il flauto magico" di Corrado Govoni:
«Di nubi grigie a un tratto il ciel fu sporco / ... Quando si stava inebetiti e fissi / come sull'orlo d'infuocati abissi». 
E qui, la parola si rivolge a  "Aspettando il prossimo Natale" che De Turris dipinge nel 2012.
Dal quale emergono altri versi ancora, quelli di Sergio Corazzini ne "Il sonetto della neve" (tratto da "Liriche"): 
«... L'orto sopito di melanconia / nella tetra dolcezza della neve».

Ma non basta.
C'è anche il Sironi de "La famiglia" (1929) in un altro dipinto di De Turris: "Grandi pescatori" del 1989
E qui, prima di proseguire, veniamo al punto che mi mi preme sottolineare, alla domanda che mi sono posto e a seguito della quale, rispondendomi, ho deciso di scrivere quest'articolo: i molti riferimenti pittorici che appaiono (ne potrei richiamare tantissimi altri, ho avvertito Dalì, si è affacciato anche Casorati), osservando le opere di De Turris, sono tentativi d'imitazione di temi e di stile o mere citazioni? 
Ebbene, nulla di questo.
Tutt'altro.
Nelle tele di De Turris, a emergere sono le tracce del suo viaggio a ritroso, un pelago vissuto intensamente e nel quale trova i segni lasciati dal tempo. 
Allora, quando gli accade di "vedere" con il suo sguardo colto e sensibile, la naturale tensione creativa si fonde con quelle tracce, con quelle assonanze, infondendo vita a uno stile originale: è la sua peculiare lettura del '900.
Per questa ragione, anche i raffinati echi di De Chirico, si animano di una resa differente, nei contenuti e nell'espressione, come un passo oltre, un avanzare che vince l'utopia del passato ritornato segno vivo. 
Come nel caso di "Nel mare estremo" e "Senza titolo", entrambi del 1989.



Ed è ancora più evidente in tele che riportano alla mente Magritte: "Viale celeste" (1993), "Un lontano desiderio" (1997), "Invito all'ascolto", (1998).




Tele sorprendenti. 
Tanto quanto "Appare" del 2021.


Accade, osservando la produzione di quest'artista, un fenomeno percettivo che posso definire con questa parola: "compresenza". 
Mi preme dare una spiegazione.
Per giungere alla radice della sua creatività pittorica, occorre accettare che il pensiero di De Turris, la sua singolare interpretazione del '900, tocchi ogni cenno a quella storia di autori, passando non solo dal figurativo, dalla pittura di "rappresentazione" ma anche dal "non figurativo", la pittura della "presentazione", quel mare magnum sterminato di libertà popolarmente chiamata astrattismo.
De Turris rilegge, si lascia permeare, rielabora e racconta.
Il tono non è soffocato nel tempo, ma al tempo reagisce inverandolo di nuova linfa.
Così, la "compresenza" è l'apparizione di un secolo d'arte ancora capace di mostrare una vena ricchissima di fermenti, una vena nascosta che l'artista di Montalbano Jonico è riuscito a rintracciare e a portare in luce.
In questa scia, la sua espressione artistica è una vera novità.
Ma che appartiene a un passato mai emerso.
Una sorta di tesoro sepolto che solo la sua evidente capacità d'introspezione nella materia di quell'arte, poteva fare sorgere. 
La "compresenza" si afferma come un fenomeno artistico davvero unico, fino a spingere De Turris verso confini trasformati in soglie di passaggio, verso incantate distese di silenzi rimaste in attesa.
Attesa di una sensibilità cospicua, che innegabilmente, questo pittore, possiede e conserva profondamente.
Sovvengono i versi di Montale ( incipit di "Mediterraneo" tratto dalla celebre raccolta "Ossi di seppia"): 
«... Antico, sono ubriacato dalla voce / ch'esce dalle tue bocche quando si schiudono / come verdi campane e si ributtano / indietro e si disciolgono».
Con lui, con Adolfo De Turris, è davvero sorto un nuovo '900.

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